Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2019
Violente navigazioni in rete
Entriamo in un sito, clicchiamo un video, una canzone, una notizia. Abbiamo piacere, o bisogno, o addirittura urgenza, di accedere a quel link. Ma subito ci appare un riquadro non richiesto, una scenetta, un suono, immagini che non c’entrano e s’intrufolano: pubblicità. Auto che rombano, creme che si spalmano, profumi che inondano l’aere, scatole di piselli, pelati, marmellate, massaggi, lavatrici, formaggini… Vorremmo chiudere. Vorremmo tornare a ciò che avevamo cercato, e trovato. Ma non sempre si può, e non subito. La pubblicità è un fiume che non s’arresta. Bisogna aspettare. Sottostare. Subire. Dobbiamo sorbirci lo spot, siamo passivamente costretti. Quelle immagini ci fanno perdere tempo, ma soprattutto ci depistano, ci stornano (e frastornano), ci rubano per qualche secondo i pensieri, ci obbligano a guardare (anche fuggevolmente, anche senza vera attenzione) qualcosa che non avevamo bisogno, o desiderio, di guardare.
È una violenza.
(Come, da anni, è violenza la pubblicità che interrompe i film. Ricordo l’indignazione di Fellini…).
Oppure, iniziamo una ricerca su internet. Ci appaiono decine di siti, di voci. Clicchiamo su una, la prescelta. Siamo per un attimo felici, ci pregustiamo la lettura che ci darà le informazioni agognate. E invece no. Cominciamo a leggere ma ci appare una schermata intrusa, una pagina fitta fitta che ci informa sui cookie e finisce al fondo col riquadrino rosso: ACCETTO. E qui in noi si forma immediata la risposta: no, non accetto, fammi tornare alla pagina che ho scelto e voglio leggere, togliti di mezzo. Ci aspettiamo di trovare, subito sotto, anche il NON ACCETTO. Ci auguriamo di trovarlo, anzi, siamo certi che ci sia. Invece non c’è. O accetti o accetti. Se non clicchi su ACCETTO, non accedi, devi tornare indietro, alla tua ignoranza iniziale. Il meraviglioso mondo del web ti si è aperto davanti e subito si è richiuso. Come si fa ai bambini: cucù! Prendimi, se ti riesce! Non ci riusciamo mai, il web s’invola. Ne cogliamo giusto la coda che sparisce dietro l’albero. Animale selvatico e dispettoso. Per acchiapparlo, se il tema davvero ci interessa molto, dobbiamo accettare i cookie. Dunque venire identificati, schedati, e quindi usati. Certo, è il prezzo da pagare. Ma se ci impuntiamo e non ACCETTIAMO, fine, dobbiamo uscire e rinunciare per sempre a consultare quel che tanto ci interessava e tanto abbiamo cercato, quel che il web tanto generosamente ci mette a disposizione e che noi per somma beffa del destino avevamo trovato in un secondo, e a cui stavamo felicemente per accedere.
È una violenza. Con sfumatura di sadismo, direi.
Terzo esempio. Telefoniamo a un ente pubblico. Numero verde, attesa infinita e poi… E poi speravamo di parlare con qualcuno. Un essere umano. Invece no. Voce preregistrata. Se vuoi questo premi 1, se vuoi quest’altro premi 2, 3, 4, ecc. Premiamo, per esempio, 2. E di nuovo speriamo di parlare con un operatore umano. Invece no. Parte un’altra voce registrata che ci fa domande a cui di nuovo dobbiamo rispondere premendo numeri. Alla fine siamo esausti e avviliti. Dateci una persona! Qualcuno con cui parlare, discutere, spiegare le ragioni, le cause, esprimere le ipotesi, le riflessioni. I problemi non sono mai così uniformemente descrivibili e catalogabili. I problemi, le preoccupazioni (le vite!) sono fatte di complicate e ingegnose variazioni, di infinite sfumature, prevedono postille, distinguo, specifiche. Ed è parlando con un’altra persona che ci si chiariscono i pensieri, le ansie si attenuano, accadono scarti, deviazioni impreviste, soluzioni inimmaginabili. Invece, parliamo con voci assenti.
È una violenza, dis-umana.
E ora proviamo a entrare in banca. Nella nostra banca abituale, solita agenzia. Cerchiamo l’impiegato che ci conosce da anni e sa tutto di noi, che ci tratta con estrema gentilezza e comprensione, e ci aiuta sempre. Non c’è. Le banche riducono il personale. Ci invitano a fare da casa le nostre operazioni. Si chiama home banking. Facile, immediato, risparmi tempo, benzina, e spazio. Alle Poste uguale. Le Poste chiudono agenzie una dietro l’altra. Le bollette si pagano on line.
Infine andiamo in autostrada, ai caselli. Lo vedi già da lontano che non troverai nessun operatore, lo leggi dalle icone in alto: non c’è la manina, solo le tre monete del contante che cadono a pioggia nel nulla. Vuol dire che il tuo pedaggio lo dovrai affidare a una voce meccanica: Introdurre il biglietto. Introdurre la tessera o i contanti. E alla fine: Arrivederci e grazie. Ed è qui che la maggioranza di noi non resiste e risponde. Lo sappiamo che quella voce è finta, ma abbiamo bisogno di fingere un contatto umano e allora diciamo le cose più surreali (e perverse?), a quella voce. Così, tanto per illuderci che non siamo macchine, che abbiamo ancora molto da dirci, che sarebbe bello ancora vederci, incontrarci, toccarci… Invece i gabbiotti sono deserti. Come in un day after in cui nessuno è sopravvissuto.
Violenza. Leggermente fantascientifica, direi.
«Violenza da commercio» (definirei così pubblicità e cookie che invadono e affollano le nostre navigazioni in rete) e «violenza da progresso», invece, per gli altri esempi. È il mondo che cambia, l’epoca strana in cui viviamo immersi. Dunque, il mondo che cambia impone, non chiede gentilmente, non lascia liberi di scegliere. Non lascia liberi, tout court. Ci obbliga, ci costringe: ai cookie, all’home banking, all’on line, allo spot pubblicitario. Il progresso è dispotico, dittatoriale, antidemocratico. Ci violenta.
Forse è sempre stato così. Il progresso esige questa perdita di libertà. Il problema è che, almeno nelle fasi di passaggio, tale mancanza di libertà si patisce, si trova insopportabile. E noi siamo nella fase di passaggio, in una specie di limbo o sala d’attesa: non più liberi, ma non ancora dominati dai robot. Chi verrà dopo di noi non percepirà più alcuna violenza, perché alcune “conquiste” si saranno definitivamente imposte: saremo normalmente coadiuvati da robot, in parte noi stessi robotizzati, e totalmente preda dei cookie, cioè tutto di noi sarà schedato per cui non dovremo più preoccuparci dei dati che rilasceremo o meno (non avremo neanche più il riquadrino rosso ACCETTO su cui cliccare: sarà implicito che ACCETTEREMO TUTTO).
Tutto chiaro.
Ieri cercavo vanamente di comprare delle lampadine, non a led ma normali, com’erano una volta, quelle che consumano tanto e si bruciano subito e in compenso costano poco. Non le ho trovate. Non le trovo quasi più e un giorno non le troverò più per niente.
Anche le lampadine a led sono una violenza. Una violenza piuttosto elettrica, direi.
Penso che in questa dolorosa e difficile fase di passaggio, bisognerebbe che ci usassero più gentilezza, che avessero anche una forma di pietà verso di noi. Ad esempio sarebbe bello che per un po’ si mantenesse un doppio canale, un doppio mondo, in cui si vendono lampadine a led ma anche le lampadine di una volta. A esaurimento (nostro, e delle lampadine).
I passaggi sono sempre graduali, in fondo. Non penso che l’uomo sia passato dal portare addosso una pelle di montone a un gessato in vigogna doppiopetto. Né che di colpo si sia smesso di andare a cavallo per sfrecciare in automobile. Ci sarà stato un momento in cui l’essere umano teneva il cavallo nella stalla e l’auto in garage. Nessuno gli avrà imposto di uccidere il cavallo con la scusa che era arrivata l’auto.
Sarebbe stata una violenza. In nome del progresso, sì, ma una violenza.
Sanguinaria, direi.