Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2019
Giovanni Morelli, l’attribuzionista
Il governo dovrebbe «staccare per qualche istante lo sguardo dalle strade di ferro, dai porti, dai fari, dalle navi corazzate, dai sali e dai tabacchi, per innalzarlo a quelle arti che sono la maggior gloria della nostra nazione», finanziando i musei. Solo la patina linguistica (“strade di ferro”) e l’allusione ai sali e tabacchi ci impedisce di attribuire queste parole a un militante anti-Tav. Sono tratte, invece, dall’unico discorso alla Camera (19 luglio 1862) di un deputato davvero speciale, Giovanni Morelli (1816-1891), l’inventore di quel “metodo morelliano” che è alla base delle tecniche di attribuzione degli storici dell’arte, ma anche degli archeologi. Le liste dei maestri della ceramica attica compilate da J. D. Beazley hanno infatti il miglior parallelo in analoghe imprese di B. Berenson: e gli studi di Morelli sono a monte di entrambi. Il suo metodo attributivo si fonda sull’osservazione di dettagli minimi e marginali, “scarti” inconsapevolmente ripetuti e perciò rivelatori: modi personalissimi di disegnare unghie, nasi, orecchie, che permettono di distinguere a colpo sicuro, che so, Botticelli dal Ghirlandaio (o, nei vasi greci, Oltos da Epíktetos). Morelli era uno dei protagonisti del saggio giustamente famoso di Carlo Ginzburg Spie. Radici di un paradigma indiziario (1979). Suoi comprimari vi erano Conan Doyle e Freud, che proprio come Morelli furono medici intenti a fare qualcos’altro: scrivere racconti polizieschi, esplorare la psiche, attribuire dipinti. Freud, che comprò a Milano un libro di Morelli, dichiara espressamente il suo debito: come la pratica attribuzionistica, «anche la psicanalisi medica ha l’abitudine di penetrare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati o del tutto inavvertiti, detriti o rifiuti di quel che andiamo osservando».
Quel saggio di Ginzburg innescò una vasta discussione sul rapporto fra morfologia e storia e sul “paradigma indiziario”. Una discussione ovviamente evocata nella bella, accurata biografia di Giovanni Morelli appena pubblicata (in inglese e in italiano) dall’australiana Jaynie Anderson. Ricordiamone qui solo un punto, la genealogia naturalistica dell’attribuzionismo morelliano. Quell’approccio morfologico ha i suoi antefatti nel Goethe della Metamorfosi delle piante e nella Naturphilosophie di Schelling (che Morelli conobbe di persona, e di cui tradusse in italiano uno scritto), ma specialmente in Cuvier: dalle tavole delle sue Recherches sur les ossemens fossiles Morelli trasse a ricalco numerosi disegni, studiati dalla Anderson in un saggio del 1987. Cuvier proponeva un’idea forte, la “correlazione delle parti” nell’anatomia animale, per cui da un frammento si può dedurre l’intero, e dalla forma di un artiglio si può desumere la forma di una scapola, anche se non conservata. Per Morelli, che studiò medicina a Monaco, il tramite verso l’osteologia fu Ignaz Döllinger, professore di anatomia umana e comparata. Un altro suo allievo era il geologo svizzero Louis Agassiz, che ne applicò il metodo nella classificazione ittiologica e nello studio dei ghiacciai. A lui risale la teoria delle glaciazioni (1840), e Morelli ventenne fu tra gli studenti che lo accompagnarono nel 1838-39 nelle escursioni sui ghiacciai delle Alpi. La morfologia delle piante (Goethe), delle ossa (Cuvier, Döllinger), dei giacimenti glaciali (Agassiz): di qui alla storia dell’arte il passo è tutt’altro che breve, ma Giovanni Morelli lo compì d’un balzo.
Jaynie Anderson, storica dell’arte, ha dedicato a Morelli una biografia che per la prima volta rende giustizia ad altri aspetti della sua vita, finora non abbastanza noti. Il suo patriottismo e la sua carriera politica, tanto per cominciare. Gino Capponi lo definì «italiano d’animo e tedesco di studi», e l’animo italiano lo portò nel 1848 ad arruolarsi come volontario contro gli austriaci e a combattere nelle Cinque Giornate di Milano, al comando di un gruppo di bersaglieri che espugnò Porta Comasina (oggi Porta Garibaldi); fu poi inviato del Governo Provvisorio di Milano al Parlamento di Francoforte e aiutante di campo del gen. Solera nella Repubblica di San Marco. Combatté a Novara nel 1849, fu comandante della Guardia Nazionale di Bergamo nel 1859, e nel 1866 fu in Valtellina Capitano di Stato Maggiore. Dal 1861 al 1870 fu eletto quattro volte come deputato di Bergamo al parlamento nazionale italiano, e dal 1873 alla morte fu Senatore. Eppure questo patriota che per l’Italia rischiava la vita in battaglia non nacque da una famiglia italiana, anzi italiano non era nemmeno il suo nome d’origine, Morell. Svizzere erano le sue radici, e in tedesco fu la sua educazione, dalla scuola cantonale di Aarau alle facoltà mediche di Monaco e di Erlangen. Per lui l’Italia fu dunque una scelta culturale, morale, civile, che culmina nel 1840, quando decide di italianizzare il proprio cognome in “Morelli”. La continua riaffermazione di italianità, l’impegno nelle guerre d’indipendenza, l’appassionata dedizione alla causa nazionale giustificano in pieno la menzione dell’Italia risorgimentale nel titolo di questo libro. Ma sempre rimase in lui un senso di estraneità, dato che per famiglia egli era e restò protestante, anzi l’unico protestante alla Camera. Perciò si dimise da deputato subito dopo la breccia di Porta Pia perché, scrisse in una nobile lettera, nella discussione sulle guarentigie al Papa «è interessato il sentimento religioso della Nazione; e chi non appartiene al culto cattolico, per scevro di pregiudizi che egli si voglia reputare, a me pare non possa entrare giudice libero e autorevole in una quistione di tanto momento».
La tensione fra varie identità è un filo rosso nella vita del Morelli. Nei suoi scritti (che includono prove letterarie e teatrali) spesso preferì non firmarsi, o firmare con fantasiosi pseudonimi (in un opuscolo in tedesco del 1839 ne usa addirittura quattro). I suoi scritti di storia dell’arte, anch’essi in tedesco, furono firmati Ivan Lermolieff (un approssimativo anagramma), nome fittizio di un figlio della steppa russa, che però sorpassava di colpo tutti i mestieranti della storia dell’arte. E come traduttore dell’inesistente originale russo figurava un Johannes Schwarze, mentre sul versante inglese compare un John Black, altro adattamento del cognome Morelli. Verrebbe insomma da dire, pensando a Pessoa, che non di pseudonimi si tratta, ma di eteronimi, quasi sfaccettature di una stessa personalità.
Morelli seppe essere patriota anche nell’esercizio della storia dell’arte: fu tra i più ascoltati consiglieri di Francesco De Sanctis ministro della Pubblica Istruzione (1861), e presiedette una commissione che doveva scrivere una legge nazionale sulla tutela e lanciare il progetto di una «Galleria veramente Nazionale» che riunisse per scuole regionali tutta l’arte italiana rovesciando la visione fiorentinocentrica di stampo vasariano. Ma dopo «quell’indefesso mio lavoro di 68 giorni consecutivi – nel quale io avea posto tanto amore e che avea condotto a termine coll’intimo convincimento d’aver reso un servizio al mio paese» cambia il ministro, e il successore di De Sanctis («quello scimunito del Matteucci») lascia cadere nel nulla quegli ambiziosi progetti. Aveva un bel dire De Sanctis che «è strano che in questo rimescolamento d’uomini e di cose nessuno pensi a Morelli», di incarichi pubblici egli ne ebbe ben pochi (nel 1873 presiedette il Comitato Centrale per la Conservazione delle Opere di Belle Arti, primo embrione di quel che è oggi il Consiglio Superiore dei Beni Culturali), ma tutti li portò a termine col massimo scrupolo.
Questo libro, fondato su una vasta esplorazione di archivi pubblici e privati (bellissime le citazioni dalle sue lettere), illumina tanti altri aspetti della vita del Morelli. Fra gli altri, una vita sentimentale discretissima ma delicata e intensa: le sue relazioni più forti furono con donne di primissima grandezza intellettuale e sociale, come Clementina Frizzoni, vedova di un suo fraterno amico, Laura Acton, moglie del presidente del Consiglio Marco Minghetti, e la principessa Vittoria d’Inghilterra, figlia prediletta della regina Vittoria e moglie, poi vedova, del Kaiser Federico I.
Sul filo di una biografia di stile britannico, Jaynie Anderson ha saputo ricondurre a unità la vita di quest’uomo assai notevole. Una vita, dice il titolo, «nell’Italia risorgimentale». E basterebbero queste parole a dirci che l’autrice non è italiana. Gli italiani, infatti, nel nostro tempo bizzarro, tendono a evitare la parola “Risorgimento”, quasi implicasse qualcosa di vagamente imbarazzante. Sono gli studiosi stranieri a usare il Risorgimento come categoria interpretativa della storia culturale (fu fatto l’anno scorso, ad esempio, nella mostra del Louvre sulla collezione del marchese Campana), tenendola in caldo per una generazione di italiani meno codarda della nostra. E chi mai, se non Giovanni Morelli, merita l’epiteto “risorgimentale”?