Robinson, 24 novembre 2019
Jules Verne in Scandinavia
Lo confesserò onestamente ai miei lettori: fino a quel momento non avevo mai lasciato il mio rifugio, e morivo dal desiderio di viaggiare. Questa passione, soppressa in me dai venti ai trent’anni, non faceva che accrescersi. Avevo letto tutto quello che si poteva leggere in fatto di viaggi e anche quello che non si poteva leggere, e, se questa lettura non aveva ancora ossidato i lobi del mio cervello, sarà forse stato perché, dopo tutto e fortunatamente, ho un certo talento. Dopo i viaggi di Cook, di Ross, di Dumont d’Urville, Richardson, e persino Alexandre Dumas, mi era rimasto sufficiente appetito per divorare i sessantasei volumi de L’Univers pittoresque, opera dei frati benedettini che neppure la loro regola ferrea li aveva mai condannati a leggere. Le avventure, le scoperte, le spedizioni, le escursioni, i pellegrinaggi, le campagne, le emigrazioni, le esplorazioni, gli itinerari, le peregrinazioni, le traversate, il turismo, tutte queste mille magiche parole al servizio di un’unica idea, si intersecavano, si mischiavano, si amalgamavano, si combinavano, turbinando nel mio cervello. Era come una malattia. Mi sopraffaceva la nostalgia dei Paesi stranieri. Lasciare la Francia, lasciare questa contrada natale, fuggire la mia patria, dove non vivevo più, dove non potevo dormire, dove non riuscivo a respirare: dovevo farlo, a qualsiasi costo.
Non so se i miei lettori siano mai stati rapiti da una passione irresistibile, io lo spero. Così potranno comprendermi, capiranno il mio stato d’animo dopo dieci anni di letture costanti che mi avevano caricato di un eccesso di impazienza, di tentazioni, di desideri divoranti. Ero arrivato a identificarmi totalmente con i grandi viaggiatori di cui divoravo le opere. Scoprivo le contrade che avevano scoperto, prendevo possesso, in nome della Francia, delle isole su cui avevano piantato le bandiere; ero Colombo in America, Vasco de Gama nelle Indie, Magellano nella Terra dei Fuochi, Jacques Cartier in Canada, Cook in Nuova Caledonia, Durville in Nuova Zelanda: sempre e ovunque un francese, anche mentre esploravo il Messico, il Brasile, il Congo, la Groenlandia, il Perù, la California. Come disse Chateaubriand, la terra mi sembrava troppo piccola, perché ne avevano già fatto il giro, e mi rammaricavo che contenesse appena cinque continenti.
Ricordate, poi, che non avevo mai lasciato la Francia, né la mia regione, né Parigi, né il mio quartiere, né la mia strada, né la mia casa, e neppure la mia camera. Ed era proprio là, tra quelle quattro mura tappezzate di cartine geografiche, che facevo ribollire i miei ardori. I miei libri di viaggio non mi bastavano più. Mi abbonai alla rivista Le Tour du Monde. Fu il colpo di grazia. Le illustrazioni ebbero la meglio su di me. Quei disegni a matita dei Doré, dei Durants- Brager, dei Riou, Hadamar, Girardet, Flandin, Lancelot, tutti artisti in grado di riprodurre ciò che non avevano mai visto, catturarono la mia immaginazione, al massimo grado.
A rischio di morirne, dovevo a ogni costo viaggiare. Quando dico” a ogni costo”, intendo effettivamente dire con molto poco. Il mio Ministro delle Finanze non sembrava interessato a concedermi un credito supplementare e siccome il mio sistema di cambio non permetteva di commutare in spesa di guerra ciò che era destinato all’agricoltura, mi tolsi immediatamente dalla testa di viaggiare come un nababbo. Dopo aver a lungo riflettuto, scelsi i Paesi Scandinavi come meta delle mie esplorazioni: ero attirato dalle regioni iperboree come l’anguilla che nuota verso il Nord, senza sapere perché. In ogni caso, gli altri Paesi sono un po’ troppo facili da raggiungere. Chi, prima o poi, non è stato in Italia, in Germania, in Svizzera, in Algeria? Chi, tra miei lettori, non ha mai varcato le Alpi o i Pirenei? Niente di più facile, e tanti si sono astenuti dal farlo, proprio perché trovavano quel viaggio troppo scontato! Io sono del loro stesso avviso. Inoltre, sono portato per temperamento ad amare i Paesi freddi: la Scandinavia faceva proprio al caso mio.
Essa comprende la Svezia, la Norvegia, e la Danimarca, tre poetiche contrade, vaghe come i versi di Ossian; in più per raggiungerle bisognava attraversare il mare, e ogni viaggio che si rispetti comprende un po’ di navigazione.
Alcuni paesaggi pubblicati ne Le Tour du Monde sulla Norvegia e sulla Danimarca esercitarono su di me un forte potere di seduzione. Mi immaginavo di trovarvi le popolazioni selvagge dell’Oceania, gli eschimesi della Groenlandia, la Svizzera in formato grande, l’America
Photo Josse / Bridgeman Images
settentrionale in formato piccolo: ciò che il mio spirito sognava di più insolito e originale, ciò che solo in pochi avevano visto, almeno tra chi aveva la funesta abitudine di scrivere le proprie impressioni di viaggio, insomma una regione al contempo nuovissima e molto antica, capace di soddisfare le aspettative più folli della mia immaginazione.
Vorrei ora aggiungere qualcosa, e spero che nessuno se ne abbia a male. Scorrendo le pagine del libro di Monsieur Enault sulla Norvegia, ho trovato questo curioso passaggio: «Via via che avanziamo verso Nord, noi saliamo, saliamo sempre; ma in un modo tanto costante da risultare impercettibile, così che non ci accorgiamo dell’altitudine a cui siamo giunti se non guardando il barometro che sale e il termometro che scende». Questa asserzione, da parte di uno scrittore tanto ammirevole, mi sconvolgeva. Metteva a soqquadro tutte le mie più elementari nozioni di fisica; quell’antitesi mi attraeva, ma era tale da sconvolgere ogni studioso novizio; avevo sempre creduto che sia il barometro che il termometro, salendo su una montagna, sarebbero scesi all’unisono, uno per l’abbassarsi della pressione atmosferica, l’altro per l’abbassarsi della temperatura. L’antagonismo di questi due strumenti mi sembrava bizzarro; mi dicevo che la Norvegia dovesse essere un Paese curioso, se vi accadevano cose simili, ed ero deciso ad andarci di persona per osservare il fenomeno con i miei stessi occhi.
Ma non avrei dovuto viaggiare solo; quando si è in viaggio è necessario avere con sé un confidente, esattamente come capita nelle tragedie. Senza un’Acaste compiacente, con chi avrei potuto condividere le mie impressioni? E al momento di prendere una decisione, a chi avrei potuto passare il calumet del concilio intorno al fuoco? A chi avrei potuto attaccare il mio malumore? Avevo seguito assiduamente il corso di amicizia comparata del professor A. Karr; sapevo cosa si poteva ottenere da un amico se lo si prendeva per il verso giusto; ero quindi alla ricerca di questa seconda metà di me stesso, ben deciso a sottometterla a tutti i capricci dell’altra metà. Conoscevo il ragazzo migliore del mondo, dolce, spirituale, un po’ incurante, un po’ lento, con le gambe troppo corte per essere un buon camminatore, dal temperamento artistico, e quindi portato a vedere, in viaggio, quelle cose meravigliose che non esistono.
«È libero», mi dicevo, «acconsentirà a seguirmi, e seguirmi è la parola, perché immagino che mi camminerà sempre dietro. Gli proporrò la spedizione». E questo un bel giorno fu fatto, e l’amico accettò senza farsi pregare. Il suo nome era Aristide H..., era un musicista di talento che sognava di vedere Elsinore col pretesto di dover scrivere una partitura per Amleto.Note:
L’incipit di un romanzo autobiografico e mai pubblicato del grande scrittore che testimonia la sua passione per l’avventura oggi in libreria con il titolo: Jules Verne Tre viaggiatori in Scandinavia per Nuova Editrice Berti. L’estratto pubblicato è tratto da Joyeuses misères de trois voyageurs en Scandinavie,
un manoscritto autografo del 1861 uscito sulla rivista Géo nel 2003.