La Stampa, 24 novembre 2019
Biografia di Walter Bagehot
Nel 1937 G.M. Young, storico dell’età vittoriana, volle indicare per nome un uomo che appartenesse appieno a quei tempi, una figura «la cui influenza, passando da un intelletto all’altro, potesse trasmettere – e impartire ancora oggi – l’elemento più prezioso della civiltà vittoriana, quella robusta e virile normalità mentale». Il nome era quello di Walter Bagehot (1826-1877), tutt’oggi frequentemente pronunciato e storpiato. La fama dei protagonisti, si sa, tende a ritrarsi col passar degli anni, cedendo terreno a quella dei testimoni. Bagehot fu l’una cosa e l’altra. Oggi lo ricordiamo come il più famoso fra i direttori dell’Economist, che ogni settimana lo celebra nella testata di una rubrica.
Sappiamo che nel suo Lombard Street si trova per la prima volta l’idea che, in tempi di crisi, la banca centrale debba agire da prestatore di ultima istanza, fornendo denaro a piene mani ma (dettagli talora rimossi) ad alto tasso di interesse e in cambio di solide garanzie. Qualcuno ha letto, magari proprio in questi giorni di Brexit, il suo La Costituzione inglese (in Italia pubblicato dal Mulino con prefazione di Giorgio Rebuffa). Ma sono in pochi ad avere idea della complessità del personaggio, che ne fa forse davvero il più grande dei vittoriani: banchiere e letterato, autore di saggi su Shakespeare e Milton, politico sfortunato, giornalista preciso ma di fiuto non infallibile.
Una vita così intensa aveva bisogno di un narratore preciso e appassionato e lo trova in James Grant. Il suo Bagehot. Life and Times of the Greatest Victorian (W.W. Norton, 2019, pp 368., $ 29.95) è una lunga dichiarazione d’amore per il periodo irripetibile e contraddittorio di cui Bagehot sarebbe il massimo esponente. Quella vittoriana è stata un’età di novità turbinose, di straordinari progressi tecnologici, ma anche l’età del rigore, di un’attenzione alla morale pubblica a noi tanto più incomprensibile perché capillare e diffusa. Il vittoriano crede che lo Stato non debba intervenire negli affari degli individui, ma che costoro debbano esercitare il più severo autocontrollo: l’esatto contrario della morale dei giorni nostri. Di qui l’importanza all’epoca universalmente riconosciuta alle forme, argini potenti contro le improprietà dei privati.
Il racconto è necessariamente aneddotico. Grant non risparmia nessuno degli errori e delle ipocrisie di Bagehot. Egli stimava Lincoln un politico di piccolo cabotaggio. Era misogino e avverso al voto alle donne. Amico di William Gladstone, non poteva amare il suo arcirivale conservatore Benjamin Disraeli, eppure ce ne vuole per sostenere che il primo ebreo a diventare capo del governo in tutto l’Occidente fosse una figura «priva di originalità». Ma qual è l’uomo di pensiero che non commetta errori di prospettiva?
Ogni tanto, per il suo biografo americano, Bagehot appare troppo spericolato nell’approvare schemi che consentano, più o meno direttamente, l’intromissione del pubblico in materia finanziaria. Nondimeno, Grant è il primo a riconoscere che Bagehot, nella pratica, era il più convinto sostenitore dell’idea, a lui pure cara, che l’attività bancaria debba essere noiosa: che banchiere debba essere sinonimo di prudente. Nello stesso tempo, da giornalista sa riconoscere nelle occasionali scivolate di Bagehot tutti i problemi del mestiere, la necessità di scrivere a tambur battente, la difficoltà nel rapportarsi con le fonti. C’è una vena di paradosso che attraversa la biografia, come pure la prosa bagehotiana. La Costituzione inglese sostiene che il governo britannico poggi su due elementi: uno efficiente, uno teatrale. Quest’ultimo è tutto fuorché meramente ornamentale. «La maggior parte degli inglesi sa vagamente che vi sono altre istituzioni accanto alla Regina, e che ci sono norme attraverso le quali ella governa. Ma moltissimi amano indugiare con la mente sulla Regina più che su qualsiasi altra cosa. È questa la ragione per cui il suo ruolo è inestimabile». In un mondo nel quale l’elemento teatrale in politica volge alla farsa, è inevitabile tornare alle riflessioni di Bagehot sull’importanza della deferenza come collante della società.
All’Economist, egli era arrivato per conoscenza diretta con James Wilson, il fondatore. Ne frequenta la casa e alle sue figlie egli appare, pure a trentun anni che allora erano un’età più che rispettabile, «un giovane gentiluomo appena uscito da un romanzo di Jane Austen». Dopo un lungo corteggiamento, sposerà Eliza, la prima delle sorelle Wilson. Le lettere, che Grant cita con gusto, sono anch’esse il manifesto di un’epoca e di uno stile.
Non credere, spiega Walter a Eliza, che siccome ti scrivo spesso delle mie pene d’amore «il mio amore per te non sia che sofferenza. Anche nei momenti peggiori c’è sempre un selvaggio, delizioso turbamento al quale non avrei rinunciato per tutto l’oro del mondo».