Robinson, 24 novembre 2019
In memoria di Pier Vittorio Tondelli. Intervista a Luciano Ligabue
Lascio i ponti di Calatrava e imbocco la strada vecchia, quella che facevo oltre vent’anni fa, le prime volte che andavo da Luciano Ligabue a Correggio. Sempre mi meraviglia questa pianura che si fa attraversare solo a prezzo di curve e controcurve, neanche fossero i tornanti dell’Appennino. Luciano mi aspetta su, nella terrazza che si vede anche in Radiofreccia. Dentro, sul tavolo, le Opere complete di Pier Vittorio Tondelli con alcune pagine segnate da post-it. Con Luciano, non c’è bisogno neanche di fare la prima domanda.
«Quando è uscito Altri libertini, nel 1980, stavo vivendo l’anno più brutto della mia vita. Facevo il servizio militare a Belluno. Ero al limite della depressione. Nel 1980 escono due album: Dalla di Lucio Dalla, quello con dentro Futura che ogni volta mi portava vicino alle lacrime, e Patriots di Franco Battiato. Restavo a galla grazie a quei due dischi. E a un certo punto vengo a sapere che un ragazzo di Correggio ha pubblicato un libro, addirittura per Feltrinelli, e addirittura questo libro è stato sequestrato».
Naturalmente lo conoscevi, quel ragazzo. Si dice che nei paesi ci si conosce tutti.
«In realtà, Vicky lo conoscevo solo di vista e ne avevo un’idea superficiale. All’epoca, nella provincia emiliana, la classificazione era Peppone e Don Camillo. Lui stava con Don Camillo, frequentava quell’ambiente, e io ero dall’altra parte. Mi chiedo che cosa questo ragazzo alto, timido, cattolico praticante potesse mai avere scritto da farsi sequestrare il libro.
Poi rimaneva il fatto che, quel libro, era comunque di uno di Correggio e che l’aveva pubblicato una grande casa editrice».
Immagino la curiosità. Tu sei del 1960, lui era del 1955, pochi anni di differenza ma che a quell’età sono tanti. Sarai corso a cercare il romanzo.
«Il libro era già stato sequestrato, a Belluno non ero riuscito a trovarlo. Finalmente un giorno mi danno questa benedetta licenza, vado dal mio cartolibrario a Correggio e gli domando: Dai non è proprio possibile avere il libro di Vicky? Lui mi risponde: Non si può. Poi vedo che si guarda intorno con fare circospetto, armeggia sotto il banco e mi dà una busta. Dentro c’era Altri libertini. Tutto di nascosto, una sorta di carboneria che rendeva la cosa ancora più misteriosa ed eccitante. Vado a casa, comincio a leggere e il primo racconto è Postoristoro. Un cazzotto allo stomaco che non dimenticherò più. Vedevo un mondo che conoscevo, un linguaggio che suonava, c’era molto sound in quella lingua, e questo scroscio di parole, periodi lunghissimi che leggevi senza prendere fiato perché non c’era quasi punteggiatura. La situazione che raccontava era totalmente disperata, c’erano bestemmie. Non che non le avessi mai trovate sulla pagina di qualche libro, ma scritte da lui, per come lo avevo immaginato, assumevano un peso diverso. Già lì faticavo a capire quanto gli fosse costato scrivere questa cosa, anche se nel testo era tutto attribuito ad altri personaggi, erano loro a parlare così. Ambientata nella stazione di Reggio si trovava quella fauna iperbolica ma ben riconoscibile, tutto era talmente forte… Un enorme scossone psicologico. Da lì in poi il libro diventava meno crudo, ma ancora più diretto per me, tutto un riconoscere cose che mi erano anche più vicine. Mi sono sentito raccontato personalmente, perché ciò che Vicky diceva in Viaggio, e ancora più in Autobahn, erano cose che io vivevo».
Insomma, un tuffo al cuore.
«Immaginavo che lui fosse afflitto da un’inquietudine che non trovava tante risposte e che a volte c’era semplicemente bisogno di andarsi a cercare un odore, come dice in Autobahn, prendere la macchina e andarsene in giro non si sa neanche bene alla ricerca di che cosa, ma un po’ come dare sfogo a una pressione interna troppo forte. Anche nelle riletture successive non potevo non rimanere avvinto dal fatto che lui continuava a tirare dentro tutto quello che aveva osservato e che, guarda caso, era esattamente quello che avevo visto io, gli angoli, i personaggi, le situazioni che avevo sotto gli occhi ma che lette in un libro, restituite attraverso il suo filtro, mi mandavano un messaggio nuovo e decisivo».
Un odore. Uno sguardo “altro”. La possibilità per chiunque di raccontare. Ho capito bene?
«Sì. Il messaggio, forse meglio dire l’incoraggiamento e la legittimazione, era che tutti abbiamo una realtà da raccontare. E che non c’è affatto bisogno di essere nati in una metropoli. Quello che è importante è lo sguardo con cui tu restituisci a tua volta quella realtà. Con Tondelli capivo che il mio sguardo aveva senso circolasse, come quello di chiunque. A quel punto ti senti più libero e hai meno pudore. Se volevo, potevo farlo. È dopo Altri libertini che scrivo la mia prima canzone “non pretenziosa”, la prima di quelle che non sarebbero rimaste nel cassetto. Altri libertini resta uno dei libri della vita per me. Quanto alla canzone, parlo di Sogni di rock ‘n’ roll. Ci sono elementi comuni con Autobahn e Viaggio».
Mi piacerebbe capire meglio la tua, la vostra realtà di provincia.
«Stiamo parlando della fine dei Settanta, inizi Ottanta. Ti cito solo una cosa clamorosa che non credo molti sappiano. Alla Festa dell’Unità di Correggio hanno suonato Bob Dylan, Neil Young, Lou Reed, Patti Smith, Iggy Pop, Jeff Buckley. Una serie di nomi pazzeschi e incredibili per questa realtà. Insomma tutto quell’immaginario recapitatoci direttamente in casa cambiava tanto le cose».
Una provincia un po’ anomala, o forse solo lontana
dagli stereotipi. E tu sei rimasto.
«Ho avuto anch’io, come tutti credo, un momento in cui mi sono detto qui non ci posso stare. Ma quando senti che le cose ti vanno strette, quello è il momento in cui capire se le cose ti stanno strette perché ti sta stretto l’ambiente o perché ti vai un po’ stretto tu. Io ho capito che mi stavo andando un po’ stretto io. Il posto andava bene per me, ed è continuato ad andare bene fino ad adesso».
Lui invece è andato via…
«Be’, una tesi io ce l’ho. Innanzitutto la sensazione che Tondelli quasi vivesse per scrivere. Il rigore che ha messo nel suo lavoro è da missionario. Tutte le cose che ha scritto, fatto, letto, una mole incredibile. E tutti quei viaggi, i reportage, che davano conto di tendenze, mode, fauna, mutamenti generazionali. La sua osservazione era sempre acutissima, mossa da una curiosità unica. Spostarsi da Correggio veniva dunque in parte dalla necessità di trovare materiale per scrivere. Poi penso anche a un senso di solitudine.
Credo non sia stato facile l’impatto di Altri libertini con l’ambiente che frequentava. Può darsi si sia sentito respinto, capirei se la sua fosse stata anche una fuga.
Nei racconti dei ritorni è evidente quanto amasse questo luogo, la storia della sua famiglia, ma anche quanto avesse bisogno di staccarsene».
Nel 1983 esce “Pao Pao”. Se non altro la naja l’avevi finita.
«Stavo facendo il ragioniere per una ditta di articoli da giardinaggio. A una Fiera il mio datore di lavoro mi dice: “So che ti piace Tondelli, sono suo cugino”. E tira fuori Pao Pao. L’ho letto quel pomeriggio fra un tentativo di vendere un tosaerba e un decespugliatore.
Pao Pao aveva un grande difetto. Veniva dopo Altri libertini. Non ce la poteva fare a eguagliare quell’impatto dirompente. Ma è chiaro che si tratta di due libri che hanno qualcosa di importante in comune: la vitalità che vi si sprigionava, la vitalità della scrittura, del narrare, non tanto delle situazioni.
L’effetto di quella vitalità per me era contagioso.
Leggere quei libri muoveva delle energie, mi dava voglia di fare non so bene nemmeno che cosa ma di mettermi all’opera, uscire... non lo so, era qualcosa di potente. Poi il sound che lui orgogliosamente definiva come “parlato”. Più tardi ho scoperto quanto questa scelta fosse consapevole. Citava Thomas de Quincey, a proposito della contrapposizione fra letteratura che commuove, che dura fin che dura la lingua, e letteratura che insegna, che diventa vecchia e si spegne. Citava Céline, che diceva più o meno le stesse cose. E Gianni Celati. Se devo trovare un punto in comune fra me e lui – che siamo diversi per contenuti e stile – è in questa necessità di una scrittura emotiva e di una letteratura sentimentale. So che sono definizioni troppo “larghe” – quello che emoziona te non per forza emoziona gli altri – spesso disprezzate, e che ti espongono tantissimo, eppure non ho mai visto altra strada».
Hai continuato a leggerlo?
«Ho continuato a leggere tutto. Salterei Rimini Rimini che non mi ha mai preso. Ma Camere separate – nella sua grande lontananza dai primi due – è stato un altro libro molto importante per me. E credo anche per lui, rispetto al discorso che facevo all’inizio, sul suo rapporto con Correggio. Dopo Camere separate non poteva più negare un certo autobiografismo. L’ultimo romanzo che ha scritto è un libro molto bello nella sua totale dolenza. E oggi è particolarmente doloroso leggere il finale considerando che tipo di testamento risultasse essere visto quello che sarebbe successo poco tempo dopo. Ho letto e riletto quel libro con molto affetto e molta stima. Tutto quello di cui deve fare a meno un omosessuale, diritti elementari negati nelle relazioni e negli affetti più intimi. Cose che magari sai, ma astrattamente. Poi le senti raccontare con quella dolenza e da una persona che a quel punto conosci e ami e che ha cambiato la tua vita. Be’, il minimo che si possa dire è che ho provato un’empatia molto forte».
Però, mi pare di capire, non lo hai mai conosciuto di persona.
«Credo sia dipeso dalle rispettive timidezze. E anche dalla sua scomparsa così prematura, naturalmente. Lo incrociavo per strada, lo salutavo, purtroppo non ho mai trovato quello slancio in più per dirgli: “Guarda che Altri libertini è stato un libro molto importante per me. Grazie”. Ho fatto in tempo a ringraziare Dalla e Battiato. Lui, il mio compaesano, no».
E siamo alla fine. In tutti i sensi. Ed è una fine emozionante, “sentimentale”.
«Nel mio primo libro, Fuori e dentro il borgo, l’ho raccontato. Del tutto casualmente vado ad abitare con mia moglie proprio nel palazzo dove abitavano i suoi.
Ma non mi viene di pensare a lui. Lui lì non c’era mai, l’avrò incrociato una volta o due per le scale a dire tanto. Nel dicembre del 1991 avevo un concerto al Palazzetto di Modena. Mi sveglio la mattina con la febbre molto alta ed era la prima volta che mi toccava rinviare un concerto, come si sa i concerti li faccio in qualsiasi condizione perché è la cosa cui non riesco a rinunciare. Quella volta proprio non stavo in piedi. La notte mi aggiro per casa un po’ delirante con la coperta addosso. Sentivo dei rumori e vedevo dalla finestra la Saab verde di Vicky parcheggiata davanti a casa. Non pensavo nulla perché non sapevo nulla. Ma quella notte lui è morto. Qualche piano sopra di me».
Sei fra quelli che si chiedono cosa direbbe oggi Vicky di questo o di quello o fra coloro che si domandano cosa continua a dirti oggi?
«La seconda. Ogni tanto torno sulle sue pagine. Più su
Un weekend post-moderno e su L’abbandono perché lì ritrovo quella vitalità magmatica che mi piace e che mi serve tanto».
Luciano prende un tomo e apre la pagina segnata con uno dei post-it. Comincia a leggere poi richiude il libro e va a memoria. Per me è quasi naturale scrivere una storia d’amore, una storia di sentimenti. Non riuscirei a scrivere un racconto puramente mentale perché credo in un uso della lingua sensuale, un eros della lingua e del linguaggio. Parlare di sentimenti mi sembra una cosa insita nello scrivere.
Sono parole di Vicky. Sono diventate parole di Ligabue.
È scesa la sera. Mi sento dentro un film, tutti questi incontri decisivi che sono stati anche incontri mancati. Prima di tornare mi fermo al bar, dove iniziano i portici, ed è come vedessi scorrere i titoli di coda. Sono invece sicuro di sentire, proprio sentire, da qualche parte, lì attorno, la colonna sonora.
E così / Anche il sabato è andato così / Si è bevuto, ballato / Qualcuno ha imbarcato / Il più scemo le ha prese / L’autoradio intanto va / Facciamo mattina / Tenendoci su coi / Sogni di rock ‘n’ roll.