La Stampa, 24 novembre 2019
Dal jukebox a Spotify
Verso la fine dell’Ottocento al Palais Royale Saloon di San Francisco entra in funzione il primo (e primitivo) jukebox: un fonografo incassato in un armadio di quercia che funzionava solamente se si inseriva un nichelino. Una sorta di rivoluzione capitalistica dove chiunque - con una monetina - poteva auto eleggersi re del locale, almeno per la durata di una canzone. Da quel momento in avanti i jukebox diventeranno uno strumento iconografico e scenografico, un regno condiviso, una calamita di sentimenti e un fulcro di energie che troveranno la loro collocazione nei bar e nei locali di tutto il mondo, trasformando qualsiasi luogo in un rifugio sicuro dove sentire una canzone amata. Chissà quante persone si sono innamorate davanti a un jukebox, sentendo il suono ruvido e caldo di una canzone, dopo aver atteso che la moneta scenda nella fessura, ascoltando i dischi che scorrono in attesa che uno di loro venga scelto: un eletto in mezzo agli altri. Proprio come l’illusione di essere speciali. Fonzie in Happy Days lo sapeva bene, a lui bastava dare un colpo ben assestato per metterlo in funzione e far partire la canzone giusta al momento giusto, senza bisogno di nessuna moneta, come una divinità pagana nell’America degli anni ‘50. Una volta ci ha provato anche Homer Simpson, ma è quasi morto dissanguato nel tentativo di imitarlo. Questi "contenitori armonici" hanno segnato un’epoca, riempiendo di musica i locali e dando una sorta di senso di partecipazione ai consumatori che diventavano protagonisti della scelta di quello che si sarebbe ascoltato. Ma l’evoluzione tecnologica ha spazzato via, come uno tsunami, tutto quello che sembrava essere immortale. I jukebox, ormai, sono destinati a essere oggetti feticci vintage da esibire come reliquie. Ora attraverso Spotify (o anche Youtube) la selezione musicale non ha bisogno di nessuna monetina, ma solo di una connessione internet. E la scelta non si limita a un quantitativo ben definito di dischi, ma ha un archivio di dati tale per cui si potrebbe sentire musica nuova tutti i giorni. Spaziando da Battisti a Sonny Boy Williamson II, passando per la canzone latinoamericana di turno, si può scegliere solo usando il pollice, quasi come Fonzie. Nella scena finale di Top Gun si vede una mano femminile inserire una monetina in un vecchio e colorato jukeboxe, poi parte You’ve Lost That Lovin’ Fellin’ e Tom Cruise si gira, incrociando lo sguardo di Kelly McGillis. I due si abbracciano, pronti a baciarsi. Una scena che oggi potrebbe essere replicata con un semplice cellulare. Attenzione, però! Siate sicuri che prima della canzone non parta la pubblicità, altrimenti rischierete di trasformare un momento romantico in una farsa grottesca.