La Stampa, 24 novembre 2019
Una commissione farà le pulci ai conti dell’ex Ilva
Un mese per rivedere tutti i conti e trattare su tutti gli altri temi e poi due anni per cambiar pelle all’ex Ilva, decarbonizzando la produzione di acciaio. E’ questa la road map che si può immaginare dopo che l’altra sera Conte e i Mittal hanno sancito una sorta di tregua dopo settimane di braccio di ferro. Si parte subito con una verifica dei bilanci di ArcelorMittal Italia per controllare costi, andamento del mercato, impatto sui margini, costi delle forniture e verificare se la richiesta di uno sconto sul canone di affitto, 180 milioni di euro l’anno, è fondata o meno.
Per questo verrà insediata una sorta di «commissione» composta da grandi esperti del settore («perché l’ad di Arcelor Mittal è una che sa tutto di acciaio») che avrà il compito di tener testa a Laura Morselli. Da subito all’interno del governo, che dovrebbe avvalersi anche di alcuni advisor già utilizzati dalla Cassa depositi ai tempi della cordata con Jindal e Arvedi, è partita la ricerca dei profili professionali più adatti per questa missione. Un primo nome che è stato fatto è quello di Claudio Sforza, già direttore centrale finanza e amministrazione del gruppo Ilva passato da 20 mesi all’amministrazione straordinaria con l’incarico di responsabile della gestione operativa. Potrebbe essere lui il capo negoziazione, il «competitor» della Morselli che il governo potrebbe schierare.
Ma quello dei conti non è l’unico scoglio che c’è da superare. Messa per ora tra parentesi la questione dello scudo penale, e dato per scontato che Arcelor continui a garantire il funzionamento degli impianti, riavviando la produzione (ma anche pagando i fornitori), andrà poi affrontata la questione degli occupati. O se vogliamo degli esuberi. Tema che l’introduzione delle nuove «soluzioni produttive con tecnologie ecologiche» auspicata dal governo rischia però in qualche modo di aggravare.
«Più che le condizioni di mercato, è il piano industriale che non regge più - si fa notare – non solo la città non lo accetta ma la Regione continua a fare ostruzionismo» e questo complicata enormemente tutto. La riconversione dell’ex Ilva diventa così inevitabile. Ma prima di andare a regime i forni elettrici richiedono almeno due anni di tempo, fanno notare i sindacati. E questo pone un problema immediato degli esuberi. Che poi, una volta completata la ristrutturazione, rischiano di diventare «strutturali» anche a fronte di una produzione che per effetto del rinnovo degli impianti dovrebbe risalire a quota 6 milioni di tonnellate/anno dagli attuali 4/4,5 milioni.
Ed è a questo punto che dovrebbe intervenire il governo, predisponendo adeguate risorse per nuovi ammortizzatori sociali e per la riqualificazione degli operai, e soprattutto - come ha già in mente di fare Conte - chiedendo aiuto a tutti i grandi gruppo pubblici per potrebbe investire nuove risorse su Taranto e farsi carico di una parte del personale che ArcelorMittal non sarebbe più in grado di far lavorare. Da settimane si parla di 5mila esuberi, compresi i 1400 già oggi in cig, su un organico di 8.700 persone nel caso si dovesse spegnere tutta l’area a caldo.
Numeri «inaccettabili» per i sindacati, che da giorni hanno respinto un’ipotesi del genere, ma anche dal governo che non può permettersi un costo sociale così alto. Se però si scendesse a quota 2000-2500 unità la situazione sarebbe certamente più gestibile. Il governo in questo progetto pensa di mobilitare Fincantieri, Leonardo, Snam ed Eni. Un eventuale decreto salva-Taranto, che dovrebbe marciare di pari passo con la definizione del nuovo piano che il governo dovrebbe contrattare coi Mittal, oltre a reintrodurre una qualche forma di scudo penale ed accelerare i tanti progetti per Taranto già messi in campo negli ultimi anni, dovrebbe così stanziare risorse per la riqualificazione degli operai, il rilancio del porto e dell’Arsenale ed avviare quello che Conte ha ribattezzato il cantiere Taranto.