Corriere della Sera, 24 novembre 2019
I miti sbagliati che frenano l’economia
Si ritorna a parlare di crescita zero e si ritrova questa narrazione:«La forte economia delle Piccole e medie imprese industriali italiane distribuite sul territorio nel Nord è bloccata dall’euro che da 20 anni frena il loro export, dalle tasse di uno stato inefficiente e dalla zavorra del Sud del paese».
In realtà si tratta di un grande mito, basato su un paio di colossali bufale, su letture sbagliate della economia e su alibi insensati. L’economia è ferma da ben prima dell’ingresso nell’euro. Durante il «miracolo economico» degli anni 50 e 60, quando il lavoro passava dai campi alle fabbriche delle grandi industrie e dei «distretti», l’economia italiana cresceva più della media europea (senza nessuna svalutazione della lira sul marco tedesco) e gli italiani diventavano più ricchi. La crescita continuava anche dopo gli anni 70 fino a metà anni 90, ma non si trattava di una ricchezza «sana»: era drogata dalla spesa pubblica provocata da riforme fatali (pensioni, regioni, statuto dei lavoratori) che facevano esplodere il debito da meno di 50 a più di 100% del Pil. Nel 1992 i nodi venivano al pettine e il governo Amato interveniva con il prelievo forzoso dai conti correnti e la crescita della spesa pubblica si fermava. E con essa l’economia che, da allora, ha perso 30 punti di Pil di crescita nei confronti dell’Europa, nonostante che i governi Prodi, D’Alema e Berlusconi avessero fatto ripartire la spesa pubblica e il debito sino agli attuali livelli di 135% sul Pil.
Il problema è che dopo il miracolo economico, mentre gli italiani si drogavano di spesa pubblica, il tessuto delle nostre imprese non seguiva il resto delle economie sviluppate che si trasformavano da industriali a post industriali e poi a «economie della conoscenza». La competitività delle imprese italiane si è fermata 50 anni fa.
Quello delle eccessive tasse per colpa dell’inefficienza dello Stato è invece uno dei tanti alibi della narrazione sulla nostra economia. Sono sicuramente alte (anche se non più che in Francia e Germania), ma l’ inefficienza della Pubblica amministrazione non c’entra: al netto delle pensioni e degli interessi la nostra spesa pubblica in relazione al Pil è tra le più basse d’Europa ed è quella che è cresciuta meno negli ultimi 5 anni.
C’è poi il mantra che l’unico punto di forza su cui puntare sono le Pmi manufatturiere del Nord del paese. Un recente studio di Mediobanca ha riconfermato che «la forza economica del paese è manufatturiera» dato che la produttività dei servizi è addirittura scesa. Vero, ma come reagiremmo se leggessimo che il Bangladesh decanta la forza della propria agricoltura? Le economie dei Paesi sviluppati sono passate nel secolo scorso da manifattura a servizi, 50 anni fa la più grande azienda del mondo era la General Motors e oggi è Wal Mart, un supermercato. Il nostro manufatturiero rappresenta meno del 18% del Pil, il resto sono servizi – professioni, turismo, banche e assicurazioni, comunicazioni, trasporti e commercio, utilities, che da noi sono a bassissima produttività.
Anche il mantra di «puntare sulle Pmi» è sbagliato. Tutti i politici del mondo a caccia di voti (Trump come Obama), decantano il «piccolo è bello». Ma, nei fatti, da loro «big is beautiful» perché i motori della crescita della produttività e della economia sono le grandi imprese (neanche le medie) sia industriali sia di servizio. Che da noi invece mancano, soprattutto quelle veramente grandi, per colpa di familismi e inciuci da cinquanta anni. Lo dimostra la nostra pessima posizione nella classifica delle Fortune 500. Che peraltro peggiora continuamente, mentre altrove le grandi imprese contano sempre di più. Ne è un esempio il recente acquisto di Fca (che era poco italiana già prima) da parte di Psa. La carenza di grandissime imprese è esiziale per la nostra economia ed è anche la causa della bassa produttività di molti nostri servizi alle imprese come le professioni.
Il nostro «piccolo brutto» non crea high value jobs ben retribuiti e quasi sempre per laureati che da noi sono appunto il fanalino di coda nei Paesi sviluppati. Se la disoccupazione (in miglioramento) è un problema, ben più grave problema sono le retribuzioni, tra le più basse d’Europa. E le università, senza domanda di meritocrazia sul mercato del lavoro, diventano il simbolo del nepotismo.
La narrazione insiste poi sulla importanza dei piccoli centri urbani dove il rapporto tra le Pmi e il «territorio» è considerato chiave. Purtroppo, il mondo sviluppato va in tutt’altra direzione: quella delle grandi città come Milano che diventano sempre più hub innovativi di servizi e di knowledge economy, perché attraggono le aziende più innovative del mondo, i migliori talenti, ottime università, offrono servizi (per esempio sanità), tecnologia e finanza innovativa e attraggono residenti e turisti.
La vicenda Ilva che rischia di costare 0,3 % di Pil del Sud rialimenta infine l’idea del Nord «zavorrato» dal Sud. Si tratta di un altro alibi perché in tutto il mondo occidentale esiste un gap simile al nostro tra le regioni più ricche e quelle più povere. Il problema è che da noi si è fermata la locomotiva del Nord.
Per poter evitare di perdere anche la terza rivoluzione economica, quella digitale, è necessario cambiare radicalmente paradigma economico. Dai «distretti industriali» e Pmi sul «territorio» a grandi imprese in grandi città innovative che creano high value jobs per laureati in università meritocratiche. Da piccole imprese di servizio che sopravvivono grazie all’evasione fiscale a imprese competitive perché i loro clienti sono grandi imprese globali. Da un’economia di «imprenditori» a una di imprenditori e manager. Abbandonare una volta per tutte questa narrazione che si è rivelata un mito irreale e dannoso è il primo passo per realizzare questo cambiamento epocale.