24 novembre 2019
Biografia di Jannik Sinner (due articoli)
Giuseppe Videtti, la Repubblica
Il diciottenne più forte del mondo nel gioco del tennis è nato in fondo alla pista da sci che scende dal Monte Elmo. La sua casa, tra le Dolomiti di Sesto, in queste ore affonda sotto un metro di neve fresca. Fiocca anche sul rifugio in fondo alla Val Fiscalina, isolato. Jannik Sinner è cresciuto qui, tra i larici che crescono ai piedi del sentiero che sale alle Tre Cime di Lavaredo. Papà Johann, 56 anni, nella Talschusshutte cucina canederli e Wienerschnitzel. Mamma Siglinde, 54 anni, porta i piatti in tavola da quando era una ragazza. «I primi sci — dice — mio figlio li ha messi a tre anni. È naturale: nasci nella neve e vuoi provare a sentire quanto è calda ». Jannik però ha fatto un’altra scelta e in Alta Pusteria la gente è ancora stupita. Il papà spiega così il passaggio dagli sci alla racchetta: «Era un bambino — dice — che pensava molto». Provare a essere un campione, all’inizio, non è un fatto sportivo. Bisogna essere capaci di immaginarlo.
«Il modo di sognare di Jannik — dicono i compagni delle elementari — era essere sempre serio. In particolare quando scherzava». Per il fratello Mark, 21 anni, tecnico alla Durst di Bressanone, c’è qualcosa di più: crede che in Alto Adige l’eccellenza nello sport non sia estranea alla solitudine. «Abbiamo confidenza con lo stare soli — dice il papà — i villaggi sono piccoli e le montagne grandi. Devi cavartela senza chiedere aiuto. Fai subito i conti con te stesso: l’istinto spinge meno verso i giochi di squadra». Alex Vittur, l’amico a cui la famiglia Sinner ha affidato Jannik per farlo restare un ragazzo e non vederlo mutare in robot, questo senso speciale per le sfide lo chiama coraggio. «È necessario — dice — per avere paura senza spaventarsi. Nello sci come nel tennis: ad alto livello, spiegano come si sopravvive alla vita».
Lontani da Sesto è difficile capire come il diciottenne più forte del mondo con una racchetta in mano, possa essere cresciuto con gli sci ai piedi. A casa sua invece è chiaro. «Ha deciso — dice la nonna Maria — si è concentrato e l’ha fatto». La storia è semplice. Come tutti i sudtirolesi di montagna, Jannik da piccolo aspetta la prima neve. Scia con i genitori, poi con la compagnia del paese. Siccome «pensa molto» e a scuola non entra se non ha fatto «i compiti alla perfezione», non gli basta. Il suo primo maestro di sci è Andreas Schoenegger. «Mi sono accorto — dice — che era diverso. Non assomigliava agli altri. Non cercava di divertirsi: voleva imparare».
Jannik non ha ancora sette anni e sulla neve va veloce. Prende lezioni anche da Elisabeth Egarter e Robert Amhof, maestri a Sesto. A passo Monte Croce si allena con Klaus Happacher. «Si presentava agli impianti — dice — prima che aprissero. Era ancora buio. Non diceva niente: faceva pali e ancora pali». A 8 anni diventa campione italiano di gigante. A 12, sempre tra i coetanei, arriva secondo. La mamma lo aiuta con gli scarponi, il papà con la sciolina. Tutti dicono: diventerà un campione, come Thoeni, Innerhofer, o Paris. Invece no: essere secondo è poco. «Avevo paura della velocità — dice Siglinde — non volevo che facesse discesa libera. Un incidente e non torni più il bambino di prima».
È l’estate del 2014. Ogni giorno Jannik aspetta che il padre finisca di cucinare nel rifugio per giocare insieme a tennis sui campi coperti di Moso. Lo vede l’allenatore Heribert Mayr. Dice una sola parola, in dialetto: «Gschickt». Intraducibile. Il senso: «Sveglio è niente». In novembre parte una telefonata ad Alex Vittur. Anche lui è stato fortissimo ed è amico di Andreas Seppi, salito in classifica fino a quota 18. «Mi ha chiesto — dice — di dare un’occhiata a un ragazzino che tirava cannonate». A 13 anni Jannik aveva scelto. «Un giorno mi fa — dice Johann — : "Papà, non scio più, voglio fare il tennista". Ho capito che non stava scherzando». Alex Vittur gioca con Jannik per un’ora. «Non ha fiatato — dice — ma non voleva più smettere. Sembrava già uno che fa il suo mestiere. Ai genitori ho detto che con un tipo così, un progetto poteva avere senso».
Nessuna spinta da mamma e papà. Nulla che somigli all’orgoglio. L’hanno lasciato libero: in montagna non c’è alternativa per andare avanti. «Hanno detto che il figlio era grande — dice Vittur — e che voleva giocare a tennis. Mi hanno chiesto solo di stargli vicino». Così, cinque anni fa, Jannik lascia la neve delle Dolomiti e scende fino al mare della Liguria e di Bordighera. Vittur lo affida a Riccardo Piatti, l’uomo che tennisticamente parlando «trasforma il talento nell’arte massacrante di vincere». «A noi però — dicono i genitori — preme che impari come si diventa una persona anche dedicandosi a una passione. Devi fare il massimo: male che vada hai fatto il massimo».
A Sesto Jannik era un bambino, a Bordighera si trasforma in un adolescente. In sei mesi poi, a 16 anni, diventa altissimo e resta magrissimo. Oggi, più robusto, ascolta Eminem, tifa Milan, gioca a calcio alla playstation, studia inglese, punta al diploma da ragioniere all’istituto Walther di Bolzano e «tiene sempre d’occhio» il suo idolo Roger Federer. Questa settimana, l’unica di ferie in un anno, ha fatto lo scritto per la patente dell’auto. Una passione, in famiglia: cucinare. «Va al supermercato — dice il papà — e mi telefona per sapere cosa serve per il piatto che ha in testa: pasta al pesto, o cotoletta impanata».
A casa non sono preoccupati. «C’è troppo da fare — dice la mamma — a volte guardiamo qualche partita. Vediamo che Jannik è felice e ci basta. Mi preoccupa solo sapere che è sempre in aereo». Sul campo da tennis, Riccardo Piatti è un secondo padre. L’obbiettivo è «fare in modo che questo ragazzo sempre serio sia qualcuno anche se non dovesse rivelarsi qualcuno».
Dopo il Next Gen di Milano, una settimana fa Yannik Sinner ha vinto il Challenger di Ortisei ed è balzato al numero 78 del ranking mondiale: «Ho preferito il tennis allo sci — dice — perché è un gioco. Vedi il tuo avversario, la gara non finisce subito. Hai il tempo per capire cosa sta succedendo ». Famiglia e amici frenano. «Non ha fatto ancora niente — dicono — la strada per diventare un campione resta lunga, dura e incerta ». Non dicono impossibile. Perché con una racchetta in mano Jannik «pensa molto» ed è «seriamente felice ». Anche se la neve, lontano dal paese, non gli cade più sulla testa.
***
Gaia Piccardi, Corriere della Sera
On. Off. On. Off. No, l’impianto elettrico di casa Sinner a Sesto Pusteria nell’autunno del 2008 non presentava nessun problema di voltaggio. «Era Jannik che, a 7 anni, aveva una voglia incredibile di giocare a tennis e una fretta indiavolata di imparare – racconta da Brunico il maestro Heribert Mayr, posando la prima pietra angolare di un’agiografia destinata da oggi in poi a moltiplicare con ritmo feroce aneddoti e leggende —. Non stava mai fermo, né accettava di sbagliare benché fosse agli inizi. Finita la lezione, riprendeva subito in mano la racchetta: palleggiava contro la parete della camera, cercando di centrare l’interruttore».
Da bambino Bjorn Borg ripeteva ossessivamente contro il muro il gesto asimmetrico con cui nell’hockey su ghiaccio mandava il disco in rete. Andre Agassi odiava la macchina spara-palle con cui il padre Mike lo obbligava ad allenarsi. Roger Federer si decolorava i capelli e spaccava le racchette. Jannik Sinner accendeva e spegneva la luce. E dire che, all’inizio di quest’avventura, sciava: «Slalom e gigante, di cui ero campione italiano junior. Mi piaceva Bode Miller. Quando ho scelto il tennis tutti mi dicevano: come giochi bene! Io sono stato l’ultimo a crederci: solo adesso sono consapevole del mio talento e delle mie capacità».
Un’ora con Jannik vola. Allungati tutti i suoi 188 centimetri in obliquo sulla sedia, con i piedoni numero 44 in equilibrio sui talloni, la zazzera rossa da cui spuntano due occhi chiari e intelligenti (gli piace portare i capelli lunghi: li taglia solo quando fanno le «alette» sotto il cappellino) e la risata pronta irrorata da un’ironia assai personale ma sufficientemente empatica, Jannik Sinner da San Candido, Alto Adige (il ragazzo è sveglio e disinnesca subito qualsiasi scintilla di polemica sulla definizione di altoatesino o sudtirolese: «Chiamami come ti pare, per me è uguale. Sono nato a un passo dall’Austria, sono italiano e mi alleno in Italia con coach italiani»), non ama le interviste. Però, con la maturità nel tennis e nella vita che lo contraddistingue, da 18enne n.78 della classifica mondiale (è il top-100 più giovane) e enfant di un pays che aspetta il nuovo Panatta da quasi nove lustri, sa che non può esimersi. E stasera – in jeans, maglione e scarpe Nike (quelle belle, lucide di vernice, le ha dimenticate in montagna) – farà il suo debutto sulla tv nazionale a «Che tempo che fa», diretta su Raidue, perché è giusto che alla fine di una clamorosa stagione di prime volte (la prima vittoria in un torneo challenger, a Bergamo lo scorso febbraio, oggi sono già tre; il primo Slam a New York, il primo successo Atp a Milano sbranando Next Gen) tutti, e non solo gli addetti ai lavori, possano conoscere il Barone Rosso destinato a grandi voli anche se il suo ottimo coach, Riccardo Piatti da Como, lacustre globetrotter, avrebbe preferito che rimanesse all’Accademia di Bordighera ad allenarsi, senza perdere tempo, con un valido motivo: «Okay ha fatto una buona annata però non ha ancora vinto niente, questo ragazzo».
Vero. Ma un italiano che emani il rovescio come se inspirasse e il servizio come se espirasse, senza alcun sforzo evidente cioé, uno dotato di un talento lampante tanto da far sobbalzare Novak Djokovic sulla sedia («Next Gen non mente: la prossima stella del tennis mondiale è Jannik Sinner») e capace di un’arrampicata verticale a mani nude di 473 posizioni (il 1° gennaio era 551°), uno con un potenziale così devastante, insomma, su questi schermi non si era mai visto. E allora si apprende che gli piacciono il Manchester City e De Bruyne alla Playstation («Perché sa fare i gol da fuori area!»), che adora il Wiener Schnitzel di nonna Maria e le passeggiate sui sentieri della sua Sesto con nonno Josef, che alle 7 di mattina si metteva in auto per portare il nipote giù al Pustertaler Tennis Service di Brunico, dove il maestro Heribert Mayr fu il primo a notare la facilità dei colpi e degli spostamenti e il maestro Andrea Spizzica a rivolgerglisi in italiano (in casa Sinner si parla il tedesco della valle).
Attaccatissimo alle sue montagne («Lassù c’è un’aria diversa, a Sesto mi ricarico ma dopo un po’ non so più cosa fare...»), Jannik vive a Bordighera da quando aveva 14 anni: «Lasciare la famiglia non è stata una scelta facile ma, sci o tennis, ho sempre voluto diventare forte in uno sport. I miei mi hanno lasciato libero, li ringrazio». Papà Hanspeter fa il cuoco in Val Fiscalina, mamma Siglinde è cameriera nello stesso rifugio, il fratello Mark (tre anni più grande) è nato nel ‘98 a Rostov sul Don, in Russia. È stato adottato dai Sinner quando pensavano di non poter avere figli. Poi il 16 agosto 2001 la cicogna ha portato il Barone Rosso. E nel fagotto c’era avvolta una racchetta.