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 2019  novembre 24 Domenica calendario

Biografia di Gianrico Carofiglio raccontata da lui stesso

Gianrico Carofiglio, qual è il suo primo ricordo?
«Ho tre anni. Tolgo la marcia alla 600 di papà, che si arrabbia tantissimo». 
Papà era severo? 
«No. Io ero molto pauroso, mi terrorizzava il buio; allora lui mi dava un cuscino da abbracciare. Poi per fortuna è nato mio fratello Francesco. Voglio scrivere un libro che comincia così: “Da bambino avevo paura di tutto”». 

E il primo ricordo pubblico? 
«Il match Benvenuti-Griffith. Era il 1967». 
Ricorda anche il Benvenuti-Monzon del 1971? Con l’asciugamano bianco che vola dall’angolo del nostro campione, per interrompere il massacro? 
«Monzon era un killer vero: gettò la moglie dalla finestra. Ora che ci ripenso, mi ricordo anche l’alluvione di Firenze. Una città per me avvolta da un’aura mitica, dove avrei poi vissuto da magistrato. Un luogo magico come Parigi, dove ha vissuto mia madre. Rientrò per una malattia di mia nonna, conobbe mio padre ed eccomi qua». 
Chi era sua nonna? 
«Italia Iozzia, nata a Pachino, fu una delle prime siciliane a laurearsi. A Catania abitava a casa dei Brancati: Vitaliano era un bambino, lei lo chiamava Talianuzzu. Poi sposò un funzionario di polizia e si trasferì a Bari». 
E i nonni paterni? 
«Nonno Giovanni era un comandante di navi. In guerra per tre volte ebbe una licenza e per tre volte la sua nave fu bombardata. I marinai cominciarono a chiedere la licenza quando la prendeva lui». 
La memoria è al centro del suo ultimo romanzo, «La misura del tempo». Tra poco cade il cinquantenario della strage di piazza Fontana. Come la ricorda? 
«Mi ricordo un ragazzino di dodici anni cui dovettero amputare i piedi. Fantasticai a lungo su come sarebbe stata la sua vita se quel pomeriggio non fosse stato in quella banca. La letteratura nasce da lì, dal pensiero ipotetico. Provai sensazioni analoghe quando uccisero Francesco Coco e Carlo Casalegno. Quando scelsero di fare il magistrato e il giornalista mai avrebbero pensato di finire assassinati». 
Il magistrato però è un mestiere pericoloso. Soprattutto in Italia. Perché lei l’ha scelto? 
«Per caso. Facevo pratica legale, senza convinzione. Un giorno incontro a Bari un ragazzo un po’ più grande di me, che aveva fatto il mio stesso liceo: Michele Emiliano. Tutti e due indecisi sul da farsi, decidiamo di provare insieme il concorso in magistratura. È cominciata così». 
I suoi personaggi però non sono magistrati. Fenoglio è un maresciallo dei carabinieri. Guerrieri è un avvocato. Perché? 
«Volevo raccontare le indagini e i processi visti dall’altro fronte. Da pubblico ministero, per anni ho osservato e studiato gli avvocati. A volte, durante i controesami non ascoltavo le domande e mi concentravo solo sulla direzione della voce. Quando la sentivo deviare verso di me, voleva dire che stavano proponendo una domanda inammissibile e si giravano inconsapevolmente per controllare se facevo opposizione». 
Come il centravanti che ha segnato sul filo del fuorigioco, che prima di esultare controlla se il segnalinee alza la bandierina per annullare il gol. 
«Appena sentivo la voce cambiare direzione, dicevo: “Inammissibile”. E il giudice spesso mi dava ragione». 
Un altro tema del suo libro è l’errore giudiziario. Eppure lei scrive: “Parecchi di coloro che vengono indagati per omicidio sono colpevoli; molti di quelli che vengono rinviati a giudizio per omicidio sono colpevoli; la stragrande maggioranza di quelli che vengono condannati per omicidio sono colpevoli”. Quindi i gialli non esistono? 
«Certo che esistono. Non c’è una verità processuale assoluta di cui non sia possibile in astratto predicare il contrario; anche se è enormemente improbabile». 
Eppure molti delitti restano impuniti. 
«Nel 90 per cento dei casi gli inquirenti capiscono chi è il colpevole, anche se non sempre riescono a dimostrarne la colpevolezza. Poi c’è l’altro 10 per cento. Lì c’è il giallo». 
Rosa e Olindo? 
«Come dice un personaggio de La misura del tempo, se non fossero stati loro si tratterebbe di un concorso di circostanze avverse da fare venire i brividi. Ma non giudico mai i casi di cui non ho letto per intero i fascicoli». 
Sull’omicidio Calabresi un’idea se la sarà fatta. 
«A suo tempo lessi un po’ di atti ed ebbi l’impressione che Marino dicesse la verità. I processi però non si fanno con le impressioni e anche in questo caso non mi sento di esprimere un giudizio tecnico». 
E su Mani Pulite? 
«Ci furono forzature. Persone arrestate per finanziamento illecito. Ma è facile dirlo ora». 
Lei presenta spesso i suoi libri nelle carceri. 
«A volte, sì. Incontro persone che sono in cella da decine di anni. È un’esperienza molto intensa, che induce a riflettere». 
Lei ha arrestato molte persone. 
«Cerignola fu circondata militarmente. Mille anni di carcere, quindici ergastoli. Fu solo il primo dei maxiprocessi che estirparono le mafie dalla Puglia». 
Visse cinque anni sotto scorta. 
«Appena possibile chiesi mi venisse tolta». 
Anche sua moglie è un magistrato. 
«Procuratore aggiunto di Foggia, una delle città più difficili d’Italia. È molto brava, ha alcune delle doti più importanti per fare quel lavoro: competenza, passione e distacco». 
Nel nuovo romanzo si riaffaccia Rossana, l’ex fidanzata di Guerrieri. Un tratto autobiografico? 
«Un po’ sì. Rossana è ispirata a una mia fidanzata dei tempi dell’università. Molto bella e molto simpatica. Io non mi comportai benissimo al tempo ma quando ci rivedemmo, tanti anni dopo, mi diede una bella lezione». 

Cioè? 
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». 
«Testimone inconsapevole» ebbe molti rifiuti, vero? 
«All’inizio gli editori non mi rispondevano neppure. Poi cominciai a ricevere qualche no e lo considerai un passo avanti». 
Come lo motivarono? 
«Uno scrisse che mancava “il respiro romanzesco”. Un altro che non aveva “nessuna prospettiva commerciale”». 
Quante copie ha venduto? 
«Più di settecentomila in Italia. È tradotto anche in swahili». 
Di chi fu il merito? 
«Di Elvira Sellerio. Scelse lei il titolo. Il mio era lungo come quelli della Wertmüller». 
Quale consiglio darebbe agli aspiranti scrittori? 
«Cominciate a scrivere solo quando sapete già come andrà a finire. Così potrete concedervi qualsiasi excursus, rimanendo padroni della storia. Fermo restando che pure la grande letteratura può commettere errori giudiziari». 
Cosa intende? 
«Pierre Bayard ha riletto con la sua mente raffinatissima Amleto, Il mastino dei Baskerville, L’assassinio di Roger Ackroyd, dimostrando che il colpevole non è quello indicato da Shakespeare, Conan Doyle, Agatha Christie». 
Dopo Guerrieri, l’altro protagonista dei suoi libri si chiama Fenoglio. Perché? 
«Di solito scelgo i nomi dei personaggi sull’elenco del telefono: ne conservo qualcuno a questo scopo. Ma il nome del maresciallo l’ho trovato rileggendo Una questione privata, il capolavoro di Beppe Fenoglio». 
Lei scrive che gli uomini non si rassegnano alla morte. È stato così anche per i suoi genitori? 
«Credo di sì. Papà una volta, negli ultimi anni, disse una frase che mi trafisse e che ho messo testualmente ne La misura del tempo: “ho i pensieri di un ragazzo nel corpo di un vecchio”. Alla fine non riusciva più a parlare, ma poteva ancora suonare il piano». 
E lei come immagina l’aldilà? 
«Un posto dove poter sapere tutto». 
Della Bari della sua infanzia cosa ricorda? 
«I clienti dei pescivendoli che infilavano le mani nell’acqua lurida, tiravano fuori i polipetti e se li mangiavano. Per anni non ho toccato il pesce crudo. Poi ho scoperto che è buonissimo». 
Ora essere pugliesi è di gran moda. 
«Modugno se ne vergognava». 
E Arbore, foggiano, passa tuttora per napoletano. 
«Oggi abbiamo Checco Zalone, Caparezza, i Negramaro». 
E Antonio Cassano. 
«Un suo cugino, detto Giuan U Nan’, anche lui a suo modo un atleta notevole, una volta fu arrestato per una rapina commessa con un calcio volante al petto del malcapitato». 
Pure il presidente del consiglio è pugliese. 
«Credo che l’alleanza tra Pd e Cinque Stelle possa diventare strategica. Come quella tra socialisti e Podemos in Spagna». 
A lei non dispiaceva neanche Renzi. 
«Vero. È un peccato che stia sperperando un grande talento politico». 
Cosa pensa dello scudo penale per i dirigenti Ilva? 
«Un’espressione dannosa. La norma penale deve essere generale e astratta». 
Chi vince in Emilia? 
«Bonaccini». 
E Salvini? 
«Sbagliato definirlo fascista. È un pericoloso demagogo, e alla demagogia occorre contrapporre intelligenza e passione».