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 2019  novembre 24 Domenica calendario

La terra che respira

Il lago Ciad si sta prosciugando. Sembrerebbe un fatto drammatico e in parte lo è, ma forse è anche parte di un fenomeno molto più grande di quanto si possa immaginare.
All’incirca nel 7000 a. C., l’area che oggi occupa il deserto del Sahara aveva il clima della savana. A nord dell’attuale Ciad esisteva un grande lago con un’estensione di 360 mila chilometri quadrati e profondo circa 183 metri: si chiamava lago Mega-Ciad ed era il più grande bacino di acqua dolce sulla terra.
Il prosciugamento di questo lago è stato causato da un brusco cambiamento climatico (poche centinaia di anni). Cominciò a piovere meno a causa di uno spostamento verso sud del monsone dell’Africa occidentale. Nel 3900 a. C. cominciò la trasformazione in deserto di tutta quella zona.
Il Mega-Ciad si divise in tre laghi, Bodélé, Fitri e Ciad. Oggi ha resistito solo il lago Ciad, anche se si riduce sempre di più con il passare degli anni. Penso che sia il suo destino, come per i suoi gemelli Bodélé e Fitri. Lo spazio lasciato da questi laghi ha preso il nome di depressione di Bodélé ed è diventato la più grande fonte di polvere del mondo. Non è una polvere normale: è una polvere che contiene molto fosforo. Il fosforo è reperibile in alcune rocce e soprattutto nelle cellule degli esseri viventi – e soprattutto è un fertilizzante naturale. La foresta amazzonica ne è ghiotta.
Nel grande lago Mega-Ciad c’erano molti pesci e vegetazione, che sono diventati fossili quando l’acqua è definitivamente evaporata. Le particelle di questi fossili si chiamano diatomee, quindi si possono definire diatomee fossili. Questa enorme quantità di elementi organici vola insieme alla sabbia e viene trascinata in un viaggio che finisce nella foresta Amazzonica ma che prosegue anche nell’oceano Pacifico, sotto una forma diversa.
La depressione di Bodélé è quindi come un motore che innesca l’energia per far partire un ingranaggio che metterà in connessione “quattro grandi sistemi”: il deserto del Sahara, l’Oceano Atlantico, la Foresta Amazzonica e l’Oceano Pacifico. Tutto per la produzione di ossigeno, quella sottile striscia celestina che corre intorno alla Terra.
Il 28 aprile 2006 un razzo della Nasa ha lanciato il satellite CloudSat, che serve ad analizzare e misurare le nuvole per studiare e cercare di risolvere il problema del riscaldamento globale. Questo satellite lavora insieme ad altri satelliti, Aqua, Aura Calipso e Parasol, che è francese. CloudSat e Calipso lavorano simultaneamente sulla stessa porzione di Terra e, incrociando i dati, cercano di scansionare le nuvole e analizzare gli aerosol (piccole particelle presenti in atmosfera). Questo gruppo di satelliti è molto importante per la nuovissima tecnologia di cui sono forniti. La Nasa si aspetta molte risposte da queste misurazioni; nel frattempo, sono migliorate molto le informazioni per le previsioni del tempo. Prima del satellite Calipso, non si poteva ad esempio conoscere la portata di acqua e neve all’interno di una nuvola.
Le particelle aerosol sono composte da molti elementi: polvere del deserto, sale marino, fumo delle eruzioni vulcaniche e degli incendi dei boschi. Ma derivano anche dalla combustione del carbone, degli idrocarburi e delle emissioni delle attività umane come le fabbriche e i mezzi di trasporto. Gli aerosol influenzano il clima e sono di diverse grandezze. Alcuni tipi viaggiano a bassa quota e altri ad alta quota. I primi vengono facilmente rimossi dalla pioggia, mentre gli altri possono spostarsi anche per migliaia di chilometri: per questo, l’inquinamento di paesi molto lontani tra loro non va sottovalutato.
Ma facciamo finta che le particelle aerosol siano solo quelle del deserto del Sahara e precisamente quelle della depressione di Bodélé. Particelle ricche di fosforo, le tempeste di sabbia del Sahel le trascinano in alta quota e in soli sei giorni percorrono circa novemila chilometri, calando sulla foresta amazzonica grazie all’umidità che gravita sempre sopra la foresta pluviale. Pioggia di fosforo e altro, è il fertilizzante potente di cui si nutre la foresta: le diatomee fossili vengono assorbite dalle piante e drenate nel terreno.
Nel cuore dell’Amazzonia brasiliana c’è un’antenna alta 325 metri – uno più della Torre Eiffel: si chiama Atto (Amazon All Tower Observatory) ed è frutto di un investimento diviso in parti uguali da Germania e Brasile. Questa antenna serve per fornire dati anche ai satelliti CloudSat e Calipso, per una connessione sicura con la foresta che è quasi sempre coperta da un fitto strato di umidità. In realtà esisteva già un’altra antenna, nata con lo scopo di analizzare la qualità dell’aria e osservare i fenomeni dovuti all’inquinamento. Sorge in piena Siberia – precisamente a Zotino. È stata costruita nel 2003, ma è diventata operativa nel 2006, è alta 302 metri e vi collaborano scienziati russi ed europei.
Da queste modernissime e rivoluzionarie ricerche, sembra che alla foresta amazzonica basti l’ossigeno che produce essa stessa. In altre parole, la grande quantità di biodiversità che ospita l’Amazzonia consumerebbe tutto l’ossigeno che produce. Ma “l’ingranaggio dei quattro grandi sistemi” non si ferma qui, perché l’elaborazione della sabbia del Sahara, filtrata dall’Amazzonia, ritorna agli oceani Atlantico e Pacifico attraverso i fiumi e tutta questa ricchezza di “scarto” alimenta la formazione di alghe (fitoplancton) che è il vero e potentissimo artefice della fabbricazione del nuovo ossigeno. Infatti, gli oceani producono circa la metà dell’ossigeno terrestre.
Certo, non tutto è perfetto: può capitare che venga prodotto più ossigeno del necessario. È allora che gli incendi, come quelli californiani o australiani, bruciano l’ossigeno di troppo. Anche la produzione di fitoplancton può risultare eccessiva, proprio come si sta osservando in questi ultimi anni nel Mar dei Caraibi, nell’Atlantico e sulle coste occidentali dell’Africa, dove una grande fioritura di macroalghe sta causando diversi problemi ambientali, ecologici, economici e – non ultimo – di balneazione. Questi tappeti galleggianti erano già stati segnalati nel XV secolo da Cristoforo Colombo.
Di tutt’altra natura sono gli incendi che questa estate hanno distrutto parte della foresta amazzonica. Non per un eccesso di ossigeno ma piuttosto per avidità umana. Il nuovo presidente del Brasile Jair Messias Bolsonaro ha modificato le politiche ambientali del suo paese tagliando fondi alle agenzie governative che sorvegliano e applicano le leggi sulla protezione dell’ambiente. Questo vuoto di potere ha incoraggiato gli allevatori a disboscare per guadagnare campi di pascolo, anche nelle aree che prima erano protette. Ad oggi circa il 20% della foresta è andata perduta e si prevede che entro il 2050 si arriverà al 40%. Stiamo perdendo 1 dei “quattro meravigliosi ingranaggi”.
Il Brasile dovrà affrontare grandi problemi dovuti a questo scempio nei prossimi trent’anni, perché le piogge del sud del paese dipendono dall’umidità che la foresta e il Rio della Amazzoni producono. Se cala questa umidità, caleranno le piogge e le colture e gli allevamenti del paese subiranno un tracollo. Si stima che calerà la produzione di soia dal 25 al 60% e la produttività dei pascoli dal 28 al 33%.
L’industria agroalimentare brasiliana vale circa il 24% del pil. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina ha fatto aumentare la richiesta di materie prime brasiliane e questo alimenta la deforestazione. Mentre l’Unione Europea, in contrasto con le politiche ambientali di Bolsonaro, sta importando meno dall’industria agroalimentare brasiliana, questo minaccia la sostenibilità del settore.
La depressione di Bodélé, gli oceani, la foresta pluviale e il loro movimento osmotico sembrano quasi produrre un respiro al punto che – se stessimo un momento tutti zitti, se spegnessimo tutte le attività per qualche minuto – potremmo sicuramente sentire la Terra che respira