Corriere della Sera, 24 novembre 2019
Trump, Israele e gli evangelici
La politica israeliana del presidente degli Stati Uniti è almeno in parte quella che gli è prospettata dal gener0, Jared Kushner, ebreo osservante, marito della figlia Ivanka (convertita all’ebraismo) e senior advisor della Casa Bianca. Kushner potrebbe avere suggerito al suocero, nel dicembre del 2017, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e più recentemente quello delle colonie israeliane installate in territori arabi della Cisgiordania che sono occupati da Israele e dovrebbero appartenere al futuro Stato palestinese. Ma sembra che dietro quest’ultima decisione, criticata dall’Unione Europea, vi sia anche il desiderio di compiacere una influente lobby elettorale che ha una forte connotazione religiosa.
Sono gli evangelici, membri di una comunità cristiana che è più numerosa negli Stati Uniti di quella cattolica e di quella protestante, ed è particolarmente forte in alcuni Stati del Sud e del Sud-Est. I suoi rappresentanti che hanno scalato la politica americana sino alla Casa Bianca negli ultimi decenni sono Jimmy Carter, presidente dal 1977 al 1981, Ronald Reagan, presidente dal 1981 al 1989, George W. Bush, presidente dal 2001 al 2009 e Mike Pence, vice-presidente in carica.
Una parte significativa della comunità ha visto in Trump, durante le ultime elezioni presidenziali, il conservatore che avrebbe meglio garantito i loro desideri e obiettivi, fra cui la proibizione dell’aborto, la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema e una politica israeliana conforme ai principi e alle aspirazioni religiose della loro comunità. Credono nell’Apocalisse di Giovanni, nella seconda venuta del Cristo e sono fermamente convinti che dopo questo «secondo avvento» sorgerà sulla terra il Regno di Dio.
Ma credono altresì che questo accadrà, secondo le profezie, soltanto quando gli ebrei saranno tornati a Gerusalemme. Sono queste le ragioni per cui esistono associazioni evangeliche che assistono finanziariamente gli ebrei desiderosi di andare a vivere nella Terra promessa. Ed è questa la ragione per cui alcuni uomini politici britannici, protestanti ma non anglicani, fra cui David Lloyd George, hanno favorito la nascita dello Stato d’Israele. Erano gli anni della Prima guerra mondiale, quando Chaim Weizmann (il futuro primo presidente dello Stato d’Israele) si avvaleva delle sue amicizie nell’establishment britannico per persuadere il governo di Londra a proclamare la Dichiarazione Balfour (1917) e per gettare così la prima pietra di un patria ebraica nella Terra promessa.
Le simpatie israeliane di una parte del protestantesimo non conformista, oggi soprattutto negli Stati Uniti, sono note. È meno noto invece che dopo il ritorno in patria, secondo le antiche profezie, gli ebrei dovranno convertirsi alla fede di Cristo.