24 novembre 2019
Il razzismo degli italiani
La puntata sul razzismo della serie televisiva Eppur si muove che qui stiamo riprendendo ed aggiornando andò in onda su Raitre la sera del 20 marzo 1994. Portammo nello studio televisivo qualche oggetto, per rendere più agevole, più chiara la discussione. Portammo uno specchietto retrovisore, di quelli che ognuno ha sulla propria automobile. Portammo una carrozza ottocentesca, provvista di cocchiere (con frusta) e cavalli. Non proprio una carrozza vera. Avrebbe creato qualche difficoltà. Una carrozza-giocattolo.
Portammo quegli oggetti, e li adoprammo in trasmissione, per riassumere le due o tre cose che si sono ormai capite sul razzismo, tema e problema sommamente imbarazzante.
Abbiamo capito che il razzismo è - definizione di Jean-Paul Sartre - lo “snobismo dei poveri”. L’unico senso di superiorità che le classi meno ricche, meno fortunate, si possano concedere.
Io sono un emigrante irlandese degli Stati Uniti d’America dell’Ottocento. Sono un disgraziato, nel senso letterale del termine. Quella rovina del raccolto delle patate, drammatica quanto una maledizione biblica, mi ha costretto ad attraversare l’oceano. Adesso che sono qui, e tiro la vita con i denti, mi consentite almeno di sentirmi superiore a questi italiani che arrivano ora: straccioni, mandolinisti, mangiaspaghetti? Dite che è razzismo? Chiamatelo come volete, non levatemi questa soddisfazione.
Io sono un italiano del Sud (o del Piemonte, o del Veneto). Sono venuto in questo Paese (mi avevano detto che era un paese di Bengodi) perché a casa mia proprio non ce la facevo più. Adesso che sono qui da qualche anno, faticando duro (ho capito che nemmeno questo è il Paese di Bengodi), mi permettete almeno di sentirmi superiore a questi negri? Sono brutti, sporchi, minacciosi. Non vogliono lavorare, passano il tempo a ballare e cantare. Mi chiamate razzista? Fate pure, se vi fa piacere.
Io sono un negro. L’abbiamo fatta noi questa nazione, gli Stati Uniti d’America. Abbiamo lavorato duro. Prima come schiavi nelle piantagioni del Sud, poi come manovali nelle fabbriche di automobili di Detroit, al Nord. E vedete come ci trattano. Come ci discriminano ancora. Adesso poi arrivano questi portoricani, questi sudamericani, ciarlieri e intriganti. Che non vogliono stare al posto loro... Ci chiamate razzisti? Dovreste trovarvi al posto nostro!
L’America, è stato detto, funziona secondo il principio dello specchietto retrovisore. Ogni gruppo sociale, guardando indietro, vuole assicurarsi che dietro c’è qualcun altro. Che lui non è proprio l’ultimo. C’è qualcuno che sta peggio. E si sente meglio.
Del resto, l’aveva già detto Francesco Guicciardini. Che nei suoi Ricordi politici e civili scrive: «Suolsi dare per ricordo, in conforto degli uomini che non sono nello stato desiderato: guardatevi dietro e non innanzi: cioè guardate quanto più sono quelli che stanno peggio di voi che quelli che stanno meglio». Qualcuno che stia peggio di noi; qualcuno che sia - lasciatecelo pensare - peggio di noi quindi ci vuole.
Se applichiamo questo schema interpretativo alle nostre periferie sconsolate, alle nostre zone sottosviluppate, dove i fenomeni di “razzismo” sembrano più frequenti, diventeremo più indulgenti nei confronti del “razzismo dei poveri”. Ci rammenteremo che chi se la passa meglio ha meno ragioni di essere “razzista”. Ha altri modi per sorreggere il suo senso di identità, di superiorità, se ne ha bisogno.
Anche perché chi vive in un quartiere decente non li vede proprio gli emigrati. Non vedendoli, non ha ragione di esserne infastidito, di temere per il “territorio” insidiato. Può permettersi perciò quell’atteggiamento di antirazzismo (spesso convenzionale), di educata tolleranza (spesso solo verbale) che all’abitante delle borgate - lui con gli emigrati ci abita gomito a gomito - è più difficile assumere.
Perché il razzismo è anche inversamente proporzionale alla distanza. Come dimostra la storia della carrozza, e della contessa russa, raccontata da Tolstoj. Era andata a teatro costei, attratta dalla versione per palcoscenico del romanzi americano La capanna dello zio Tom, popolarissimo nell’Ottocento.
Come si commuoveva, la contessa, a vedere i poveri negri delle piantagioni americane, così affaticati, così maltrattati... Come piangeva, nel suo palchetto di teatro. Ma come pioveva - anzi, come nevicava - a Mosca. Mentre il suo cocchiere rabbrividiva. Di fuori. Seduto a cassetta, aspettandola. Per lui nemmeno un pensiero da parte della contessa dal cuore d’oro. Facile commuoversi per lo zio Tom, che grazie a Dio sta lontano, molto lontano. Più difficile commuoversi per il cocchiere. Che si congela, intanto, a due passi. È la telescopic philantropy di cui si parla nell’ottocentesco romanzo Black House (Casa desolata) di Dickens. Una filantropia telescopica. I poveri vanno bene. Purché se ne stiano lontani. Sono da guardare col cannocchiale.
Ancora un dato sicuro. Il razzismo è anche questione di pelle, come si dice. Ma più questione di ceto sociale. In Via col vento - il romanzo, il film degli anni Trenta - si vede chiaramente che la protagonista Rossella O’Hara non avverte nessuna ripugnanza, nessuna questione di pelle nei confronti della Mammy negra. E grazie! È la sua tata, la sua governante, la fedelissima domestica di casa. Le sta sotto, socialmente. Quindi niente paura. La si può anche, nel caso, abbracciare.
Vero è che alla domanda: daresti tua figlia in moglie a un negro?, ogni madre bianca rabbrividisce. Ma si provi a modificare lievemente la questione: e se si trattasse invece di un principe negro, ricchissimo? Forse la reazione materna cambierebbe.
Un calciatore di colore è onoratissimo, in Italia. Perché appartiene a un ceto fortunato, privilegiato. Ma quando il calciatore Gullit, di colore molto scuro, entra per comprare del pane in un negozio della riviera romagnola, la padrona - non riconoscendolo, e poco interessandosi di calcio - lo mette alla porta.
E dunque, sono razzisti gli italiani? In quella trasmissione del 20 marzo 1994 abbiamo trovato piuttosto difficile stabilirlo. Da una parte c‘è la nostra nazionale, tradizionale bonomia. Sincera, senza dubbio. Ma anche piuttosto generica. Si esprimono buoni propositi. Poi non ci si preoccupa di convertirli in misure legislative o sociali praticabili.
Sicché accade che sbarcano gli albanesi in Puglia - i nostri cari vicini di casa albanesi - e noi sorpresi dall’evento ci vediamo costretti a chiuderli dentro lo stadio di Bari. Dall’altra parte ci sono i focherelli di intolleranza razziale che ricorrentemente si accendono. Sul litorale di Roma, nei campi di raccolta del pomodoro, in Campania. Nell’entroterra veneto.
Nel dubbio, abbiamo deciso quella sera che gli italiani non sono razzisti. Non più degli altri popoli. Almeno nelle intenzioni. Non vorrebbero esserlo. Non vorrebbero essere considerati tali. Ogni nostro discorso sull’argomento comincia invariabilmente con la frase: Io non sono razzista, ma...
È quel “ma” che genera perplessità. Ma nei mesi successivi si sono verificate alcune cose imbarazzanti. È uscito il libro di David Bidussa Il mito del bravo italiano che riscostruisce il profilo del nostro colonialismo, non sempre immacolato come si dice, raccordandolo strettamente al “carattere italiano”,
Soprattutto, il giorno 30 settembre 1994 La Stampa ha pubblicato in prima pagina una fotografia. Due uomini degenti nell’ospedale, Amedeo di Savoia di Torino, separati da un paravento. Il paravento era stato richiesto dall’uomo bianco che non tollerava la vista dell’uomo nero, senegalese, suo vicino di letto. Nel titolo: «Non voglio vedere quel negro».
Siamo tolleranti e civili, noi italiani, nei confronti di tutti i diversi: neri, rossi, gialli. Specie quando si trovano lontano, a distanza telescopica da noi. Però, non vogliamo vederli. Possibilmente, non vogliamo saperne.
Beniamino Placido
(da Indro Montanelli - Beniamino Placido Eppur si muove. Cambiano gli italiani? Rizzoli, Milano 1995).