il Giornale, 23 novembre 2019
Intervista a Diletta Amodei
La sua moda le somiglia: delicata, femminile, sobria e con quell’intrinseca eleganza che non si può comprare perché dipende dalle buone letture, dall’abitudine a viaggi, mostre, film, concerti e un bel po’ d’introspezione. Grazie a quest’ultima Diletta Amodei ha deciso di rimettersi in pista come stilista a 40 anni suonati e con quel tipo di famiglia (un marito medico e tre figli maschi) che non lascia molto spazio alle ambizioni femminili. Lei invece ha tirato fuori dal cassetto i suoi sogni di moda e tra tre giorni presenterà per la prima volta a Milano una capsule di Amotea, la collezione di abiti speciali (gli addetti ai lavori della moda li chiamano events wear) che ha deciso di lanciare. L’operazione verrà ripetuta a Roma la città in cui è nata e vive il prossimo 2 dicembre.
La sua è una storia di rinascita al femminile?
«Direi piuttosto che è un atto di amore verso me stessa e verso i miei sogni di ragazza chiusi in un cassetto una ventina di anni fa per un eccessivo senso del dovere».
Com’è andata?
«Ho sempre avuto una passione sviscerata per la moda, fin da bambina passavo ore a disegnare vestiti d’ogni tipo, soprattutto quelli da principessa delle favole. Ho riempito la rubrica del telefono di mia nonna con gli abiti che avrei voluto fare per Cenerentola: una vera fissa. Così finito il liceo classico m’iscrivo all’accademia del Costume e della Moda di Roma da cui sono usciti fior di stilisti come Alessandro Michele e Frida Gannini. Mi piaceva molto ma sono la prima dei tre figli di un imprenditore che non capiva la mia scelta e anzi si aspettava che io andassi a lavorare con lui. Così a metà del secondo anno smetto l’accademia, m’iscrivo a scienze della comunicazione e in 5 anni mi laureo. A 23 anni entro in azienda per occuparmi del marketing».
Moda e marketing oggi hanno molte cose in comune...
«Non in questo caso. Erano quasi tutti uomini, del tipo più tosto e serioso che si possa immaginare. Il più giovane aveva il doppio dei miei anni e poi ero comunque la figlia del capo per cui credibile fino a un certo punto. Dopo un paio d’anni ho perfino fatto un master di comunicazione alla Luiss: volevo essere all’altezza della situazione ma non era per niente facile».
Continuava a disegnare vestiti di nascosto?
«No, continuavo a interessarmi di moda nel senso che leggevo e compravo molto: ero una delle migliori clienti dei negozi romani di ricerca tipo Degli Effetti e Gente. Nel frattempo però ho conosciuto mio marito e a 28 anni mi sono sposata».
Lui cosa fa?
«È un bravissimo e quotatissimo chirurgo estetico per cui finirà come il famoso calzolaio con le scarpe rotte perchè io sono agofobica e non mi faccio fare assolutamente niente: mi sento male al solo pensiero di un’iniezione».
Vi sposate e cosa succede?
«Nel giro di un anno nasce Manfredi che è una forza della natura, tutto calcio e tecnologia. Poi arriva Guglielmo che oggi ha otto anni e disegna benissimo oltre ad avere un certo talento musicale. Quattro anni fa arriva Leone che a dir la verità è un angelo: di bambini così buoni se ne potrebbero avere dieci, ma anche se mi sarebbe piaciuta una bambina che avrei chiamato Tea, con lui ho chiuso, tre figli sono un impegno pesantissimo perfino per una come me che ha la fortuna di avere un bravissimo tato».
È grazie al tato se si è rimessa in gioco?
«No, lui mi aiuta come mi aiutano mia madre e mio marito che è intelligente e assertivo di suo, ma in più è stato cresciuto da una mamma incredibile che gli ha inculcato il rispetto per il cervello oltre che per il corpo delle donne».
Quindi come è andata?
«Ero a una sfilata di AltaRoma e quando è uscita la stilista mi sono messa a piangere senza un’apparente ragione. Poco dopo insieme con la cancelleria per mandare i miei figli a scuola ho comprato tutto quello che usavo all’accademia: il Pantone, la carta da disegno, matite e colori. Mentre ricominciavo a disegnare mi sono consultata con alcuni esperti. Così ho scoperto We Manage Group, una società milanese che si occupa di start up e sviluppo business nella moda. Abbiamo studiato insieme il marchio, fatto il business plan e cominciato a lavorare sui capi».
Perchè Amotea e perchè solo events wear?
«Amotea è una crasi tra le prime tre lettere di Amodei, il mio cognome mentre Tea è la bambina che non ho avuto. E gli abiti speciali sono qualcosa che non si trova facilmente nei negozi reali e virtuali. Lo so per esperienza personale. Ho individuato una nicchia di mercato e forse continuo a disegnare abiti da principessa delle favole. Solo adesso faccio sul serio».