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 2019  novembre 23 Sabato calendario

Alla Gran Guardia di Verona una mostra del celebre scultore svizzero Alberto Giacometti

È considerato il più grande scultore del Novecento. Certo grandissimo lo è stato, anche nel costo delle sue sculture, che raggiungono i 150 milioni. Vale la pena di andare a Verona per vederle. Da pochi giorni si è aperta alla Gran Guardia la mostra «I tempi di Giacometti da Chagall a Kandinsky» (sino al 5 aprile, ore 9-18, lunedì chiusa).Davvero rilevante: 100 opere, delle quali 70 di Giacometti. Una mostra vastissima, che presenta opere del grande scultore a partire dal tempo giovanile in Svizzera fino alla prove surrealistiche e a quelle personalissime della maturità. Tutto proviene da quel tempio dell’arte del Novecento che è la Fondazione creata da Marguerite et Aimé Maeght in Sain-Paul-en-Vence (Nizza), che possiede una delle più grandi collezioni europee di dipinti, sculture e opere grafiche del Novecento.
Il curatore della mostra Marco Goldin ha ottenuto un prestito eccezionale, che consente di vedere opere delle quali non poche non erano mai venute in Italia. Nato (e morto) nel Cantone svizzero dei Grigioni, Giacometti (1901-1966) fu pittore e scultore, ma eminentemente scultore. La Svizzera lo ha onorato ponendo alcune sue opere nella banconota da 100 franchi.
Esordì con la pittura e si formò in Francia, a contatto con i movimenti rivoluzionari del futurismo, del cubismo e del surrealismo, al quale aderì per circa dieci anni. Ma negli anni trenta assunse uno stile originalissimo e tutto suo. Nel quale confluivano le anamnesi degli affreschi paleocristiani, dell’arte rinascimentale italiana, delle creazioni egiziane e anche della scultura sarda, etrusca e negra.
Giacometti rimase a Parigi dal 1922 al 1950, dove studiò presso lo scultore Bourdelle. E la mostra espone una ventina di bellissimi quadri dei grandi pittori di quell’epoca, che egli conobbe e apprezzò: Chagall, Miró, Kandinsky, Derein, Leger. Braque in particolare, che Giacometti celebrò quand’egli morì nel 1963: «Guardo con stupore questa sua pittura quasi timida, priva di peso, questa pittura nuda, di un’audacia totalmente diversa, più grande di quella degli anni lontani. La sua pittura si situa al culmine stesso dell’arte di oggi con tutte le sue contraddizioni».
Alcune sue grandi sculture esposte catturano il visitatore a tal punto che ha difficoltà ad allontanarsi: «La grande femme debout» (1955), «L’homme qui marche» (1960) e soprattutto «La femme de Venise», presentata nel 1956 alla Biennale di Venezia, dove ebbe un successo straordinario. Di questo suo capolavoro la Fondazione Maeght possiede nove variazioni, che sono state puntualmente inviate tutte alla mostra veronese.
Per non dire del grande «Chien» (1951), ultramagrissimo e flessuoso sino a non avere corporeità: «La scultura è vedere ciò che né gli occhi né la foto credono di vedere. Ho finito per svalutare il mondo stesso, per cui si crede che la fotografia abbia reso inutile la pittura. Io, invece, ho cominciato a lavorare quando ho avuto una nuova visione del mondo esterno per cui non ho più creduto nella visione fotografica».
Le sue sculture sono delle costruzioni trasparenti, quasi dei corrispondenti plastici delle pitture cubiste: fisse, immobili, frontali, isolate nello spazio Le sue figure umane sono sempre violentemente deformate, come è chiaro dalle sue sculture verticaliste e filiformi, di un colore grigio ossessivo.
Nel suo gioco di instabilità di primi piani e di lontananze, espresse con scarna essenzialità di linee una forte drammaticità espressiva: «Per me la figura umana non è un pretesto per fare un bella pittura o scultura, ma la tela, la materia non sono che mezzi per rendermi meglio conto di ciò che vedo. Solo il soggetto conta. E l’apparenza e l’essenza sono la stessa cosa, anzi l’apparenza è l’essenza stessa».
Negli anni 40 strinse amicizia con Jean-Paul Sartre, che ne divenne un grande ammiratore: «Nessun artista come lui ha colto l’inaccessibilità degli oggetti e le distanze che esistono tra gli uomini».
Come ha scritto Marco Goldin, «l’arte di Giacometti parte dalla sua storia familiare e dalle vette della Val Bregaglia dove passava le estati dell’infanzia e ha continuato ad andare fino alla fine. Viveva poverissimo, nella straordinaria ricchezza del suo calvinismo, la cui visione essenziale, severa e sovrumana traduce nelle sue opere».