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 2019  novembre 23 Sabato calendario

I segreti di Pompei in un libro

Le feste colmano quelli che forse saranno, se i Tedeschi continueranno ad avanzare, gli ultimi giorni della nostra Pompei…». Le parole che Proust mette in bocca al barone di Charlus nell’ultimo titolo della Recherche, evocando la catastrofica eruzione del 79 d.C. e profetando che qualche cosa di simile potrebbe accadere a Parigi, sono poste in epigrafe, in una lunga citazione, al denso volume di Massino Osanna in uscita martedì per Rizzoli, che infatti si intitola Pompei. Il tempo ritrovato. Al secondo mandato come direttore del Parco archeologico di Pompei, riconfermato nel 2019 grazie agli eccellenti riscontri del primo, ordinario di Archeologia classica alla Federico II di Napoli, Osanna ripercorre la rinascita del sito dopo i crolli degli ultimi anni, ci introduce nelle case e nella vita quotidiana degli abitanti, soprattutto si sofferma sulle meravigliose scoperte più recenti, in seguito alla ripresa degli scavi nella Regio V per il contenimento del rischio geologico.
Professor Osanna, perché Proust? Perché Il tempo ritrovato?
«Perché nel Tempo ritrovato torna a più riprese l’analogia tra Pompei e la Parigi del 1916, con i gas asfissianti dei tedeschi simili a quelli emessi dal Vesuvio. È il volume dove Proust teorizza come certe situazioni possano far riaffiorare il passato. Beh, Pompei non lo fa affiorare nella coscienza singola ma in quella collettiva, proprio per il suo aspetto di tempo interrotto che riprende nel 1748».
Nel libro lei parla di «famigliarità delle rovine» e della «possibilità di riconoscerle nel subconscio della nostra memoria». Che cosa intende?
«Ce lo insegna la storia della psicanalisi. Pensiamo a Gradiva, il racconto pompeiano di Wilhelm Jensen che tanto affascinò Freud, al punto da metterlo in relazione alla sua ricerca psicanalitica. Perché è chiaro che a Pompei in qualche maniera si scardina il tempo, è un posto dove questa vicenda stranissima dello scomparire all’improvviso e all’improvviso riapparire, 17 secoli dopo, crea quello che io chiamo uno "scardinamento del tempo", e che per Proust era la "resurrezione della memoria". E questo fa sì che si possa applicare a Pompei un approccio anche psicanalitico: in fondo l’archeologia è molto vicina alla psicanalisi che scava nella coscienza, come ha scritto Carandini nel libro Storie della terra, paragonando le sue ricerche a quelle dello psicanalista Matte Blanco».
Ma oltre a questa esperienza di prossimità, che sorge dal nostro intimo, Pompei può indurre anche un’impressione di estraneità.
«È molto interessante vedere come è stata percepita con esiti opposti Pompei nella storia della sua seconda vita. Goethe per esempio è sorpreso dalle dimensioni così ridotte delle case - "case di bambola", le chiama - ed è preso da un senso di estraneità da questa città che gli appare mummificata, anche se però dice che nessuna catastrofe come quella del Vesuvio ha procurato tanta gioia per i posteri. Ma poi c’è Cocteau - altro secolo, altro ambiente - che in una lettera alla mamma scrive una cosa in cui io mi ritrovo molto: Pompei non mi ha sorpreso, è stato come tornare dopo mille anni a vedere le rovine di casa mia. È molto bello ed è quello che in certi casi avverto io, quel senso di prossimità determinato anche dal fatto che è una società per tanti aspetti molto moderna. È per la sua modernità che ha affascinato Le Corbusier, per quel rapporto di luce e ombra nelle case, di natura e architettura sapientemente mescolate tra giardini e peristili, per certe soluzioni decorative che si sposano con il nostro gusto contemporaneo».
Un senso di estraneità può venire pure dal cliché di Pompei come luogo del vizio e del peccato, a cui allude lo stesso Proust. Leggenda o realtà?
«È una tradizione che risale agli anni 30 dell’800, da Gli ultimi giorni di Pompei di Bulwer-Lytton, quella che vede la città come Sodoma e Gomorra e spiega l’eruzione come punizione divina, ma ovviamente è una leggenda. Pompei non era diversa dalle altre città romane. Il fatto è che noi abbiamo una sensibilità diversa, un pudore che ci deriva dalla tradizione cristiana: in questo c’è meno prossimità. Avere dei falli incisi o scolpiti su tutte le vie o avere addirittura all’ingresso di casa un’immagine di Priapo con un enorme fallo non era assolutamente sconveniente, era un segno di buon augurio». 
Ma a lei che cosa evoca maggiormente Pompei? Estraneità o prossimità?
«Anche a me, come a Cocteau, evoca un ritorno. Nella mia memoria continua a riemergere la prima visita agli scavi, da bambino, e ancora ritrovo quelle emozioni, ricordo perfettamente la Casa di Loreio Tiburtino che poi ho avuto la fortuna di riaprire nel mio primo mandato».
Altri reperti che la emozionano in modo particolare?
«I calchi delle vittime, un’altra caratteristica unica di Pompei. Non rappresentano solo testimonianze della tragedia, ma anche l’opportunità di ricostruire biografie di persone comuni, capire chi erano, come vestivano, che cosa ci raccontano le ossa sulla loro salute. Squarci straordinari per la conoscenza del passato».
E tra le scoperte recenti?
«Sicuramente i due mosaici della Casa di Orione, venuta alla luce nell’estate del 2018. Sono un vero e proprio programma, e ci dicono qualcosa anche sul raffinatissimo dominus che li sceglie - forse addirittura prendendoli ad Alessandria d’Egitto. È un apparato iconografico senza paralleli nel mondo antico, che ci ha abituati a un’arte fatta di schémata citati a ripetizione; invece qui siamo davanti a una rappresentazione così strana - Orione con le ali di farfalla che esce dal corpo dello scorpione da cui è stato ucciso - che all’emozione della scoperta si aggiunge la sollecitazione a cercare di decodificarne il senso».
Nel complesso le nuove scoperte hanno modificato l’immagine tradizionale di Pompei?
«L’hanno cambiata molto: da città morta e statica, è tornata a essere quasi una città viva che continua a sorprendere. Eravamo fermi alle ultime ricerche di Amedeo Maiuri, a metà del secolo scorso: adesso la nostra generazione torna ad assistere a nuove scoperte, ed è un’emozione bellissima. Ma poi, fondamentale dal punto di vista scientifico, c’è l’acquisizione di una mole di dati preziosissimi e innovativi. Come l’iscrizione nell’atrio della Casa del Giardino, scavata un anno fa, che fa riferimento a un prelievo di olio nella dispensa «sedici giorni prima delle calende di novembre»: un banale appunto, ma elemento decisivo per corroborare un’ipotesi circa la data dell’eruzione formulata fin dal ’700, quando Rosini segnalava l’anomalia dei frutti autunnali sotto la lava. Si tratta di un’iscrizione a carboncino all’interno di una domus che si stava ristrutturando ma che era abitata, quindi è escluso che possa essere rimasta per un anno o oltre nel vano più importante della casa. È una forte prova a favore di una datazione che io credo si possa collocare al 24 ottobre».
Un’altra iscrizione molto interessante è quella, lunghissima, nel mausoleo venuto alla luce nel 2017 oltre la Porta di Stabia, che lei attribuisce a un certo Gnaeus Alleius Nigidius Maius, dove si apprendono dettagli inediti sulla famosa rissa "da stadio" tra pompeiani e nocerini nel 59 d.C. Un ulteriore elemento di prossimità.
«Certo, si riconosce veramente in questo caso un tratto costante e immutabile della natura umana. Tra Pompei e Nocera c’era molta rivalità, era come un derby: quella volta si erano cominciati a insultare, poi i pompeiani avevano tirato fuori le armi. Sull’episodio abbiamo la testimonianza di Tacito, che però è molto vago sulle sanzioni inflitte ai responsabili dei disordini. Dall’iscrizione sappiamo invece che, oltre alla squalifica dell’anfiteatro per dieci anni, era stata decretata l’espulsione dalla città di varie famiglie coinvolte, una sorta di daspo forse perpetuo. Ma tutto il testo dell’iscrizione è davvero straordinario, perché presenta un’infinità di informazioni, parla di una carestia di quattro anni, di quello che fa Licinio per aiutare la popolazione, degli spettacoli che organizza - quindi ci sono spunti per la ricostruzione della storia sociale, economica, del costume. L’abbiamo subito pubblicata - sul Journal of Roman Archaelogy, poi sui Rendiconti dell’Accademia dei Lincei -, moltissimi specialisti di tutto il mondo si stanno già interessando».
Lei insiste molto sull’idea che la tutela del bene archeologico debba essere accompagnata dalla ricerca, e la ricerca dalla comunicazione. Perché questo interesse per la comunicazione?
«Sono tutti aspetti collegati e imprescindibili: non ci può essere una ricerca che non abbia tra i suoi obiettivi quello di tutelare il bene oltre che di conoscerlo, e la tutela non può esserci senza la consapevolezza scientifica di quello che si protegge. E siccome Pompei è un patrimonio dell’umanità, deve essere comunicato in maniera pervasiva e diffusa. Prima gli archeologi avevano un atteggiamento strano, si tenevano le notizie nel cassetto perché bisognava prima pubblicarle sulle riviste scientifiche. Questi pudori hanno fatto sì che si comunicasse poco e male. Io invece credo che se viene fuori una novità, deve essere presentata subito al pubblico. Bisogna far capire a tutti l’importanza di questo patrimonio, che cosa ci racconta sull’antichità e che cosa, attraverso l’antichità, ci racconta sul nostro presente».