La Stampa, 23 novembre 2019
Il fascino della divisa colpisce ancora
Travestirsi da guerra non è mai sembrato così chic. Una storia d’amore, quella tra estetica militare e moda , che dura da secoli, fitta di contaminazioni e ispirazioni. Un ripassino per capire il perché vale una gita al Musée de l’Armée di Parigi per la mostra (fino al 26 gennaio 2020) Les Canons de l’élégance. Gioielli, abiti e accessori - circa 200 esemplari, lussuosi e preziosi - per riflettere sul rapporto tra azione bellica e ricerca del bello. Pennacchi e baionette napoleoniche sì, ma anche la storia di come la Controcultura degli Anni 60 si sia appropriata del camouflage dopo che la seconda guerra mondiale aveva invaso la società civile di abiti da combattimento.
Un rifugio sicuro
E poi, disegni di Dries van Noten, Raf Simons e pezzi prestati da Gaultier. Perché la divisa, non solo militare - simbolo unisex (o meglio no gender) di potere che si indossa per distinguersi ma che è anche un’uniforme per rimarcare un gruppo di appartenenza - è ancora e più che mai un comfort dress, un rifugio sicuro da incertezze e sconfitte del guardaroba. Ricordarsi, una su tutte, Condoleeza Rice: stivali altissimi e cappotto militare che saluta i soldati alla base di Wiesbaden nel 2005. Istantanea del nuovo potere femminile che fa sfoggio di sè.
E oggi, dopo decenni di oblio, torna pure rivisitata quella che era la divisa per eccellenza delle donne manager negli Anni 80, il tailleur pantalone. Non per gli uomini, che i completi non li comprano più (negli Usa le vendite sono crollate del 23%) e preferisco lo street style o a volte addirittura i mleggins (i male leggins). Ma per le donne, meglio se fanno politica, che rivalutano il caro vecchio pants-suits.
Trasformazioni d’immagine
Capofila resta Hillary Clinton, che ne ha fatto con orgoglio una trademark e nel libro What Happened - durante la campagna presidenziale investì più di 600 ore per trucco e parrucco e fu comunque molto accusata di non apparire femminile e fashion - spiega bene perché: «Quando mi sono candidata in pratica indossavo un’uniforme.
Tutti i giorni un completo pantalone, quasi sempre nero. Mi faceva sentire sicura di me».
Insomma, non preoccuparsi per quello che si ha addosso aiuta a concentrarsi meglio su quello che si ha da dire.
Zero frizzi
Stessa cosa vale per Angela Merkel, zero frizzi e massima coerenza nelle giacche (Anna von Griesheim, Bettina Schoenbach ed Escada gli stilisti di riferimento) ma colori pazzi, dal senape al cremisi, che infatti hanno ispirato anche un Pantone con le 90 sfumature della Cancelliera.
Più complesso invece il rapporto con la moda dell’ex premier britannica Theresa May. I suoi outfit azzardati e costosi (famigerate le kitten heel shoes) le sono stati tanto rinfacciati.
L’analisi del «Guardian»
Una narrazione che è legata, spiega il Guardian, anche al suo declino politico e alla poca coerenza del suo percorso, pieno di curve a gomito, pure estetiche, in confronto al solido guardaroba Merkel. Intanto la figlia presidenziale Ivanka Trump abbina il completo ai capelli più corti, freschi di taglio, con la funzione di consolidare le sue ambizioni politiche.
Mentre la più giovane e travolgente deputata Usa Alexandria Ocasio-Cortez ha saputo fare di ogni dettaglio fashion uno statement: tailleur d’ordinanza sì («un omaggio alle Suffragette»), ma mai senza rossetto rosso acceso e cerchi d’oro alle orecchie.«Per Sonia Sotomayor (prima donna di origine ispanica eletta giudice della Corte Suprema, ndr) - ha spiegato su Twitter - a cui fu consigliato di presentarsi in aula con uno smalto neutro. Lei scelse il rosso. La prossima volta che qualcuno dirà alle ragazze del Bronx di togliersi gli orecchini a cerchi, loro potranno rispondere che si stanno vestendo come una donna del Congresso».
E il peso politico di un outfit lo conosce anche Meghan Markle, accusata di stile poco british, che come primo impegno dopo la maternità ha lanciato una linea di power dress per donne disoccupate e in difficoltà.
Codici di abbigliamento
Chissà se funziona. In tempi di occupazione fluida e di attenzione maniacale al politicamente corretto, i codici di abbigliamento si sono ingarbugliati moltissimo. Sul tema sta scrivendo un libro lo studioso di Stanford Richard Ford che al New York Times spiega come «la vecchia divisa del tailleur ha un certo potere democratico, una scommessa sicura per le donne che volevano imporre rispetto». Completo o rossetto rosso, trovare un comfort dress è un percorso più psicologico che estetico, e ha i suoi bei vantaggi.
Intanto è sostenibile: meno vestiti meno spreco. E più neuroni liberati dalla scelta dell’outfit da impiegare altrove. Come insegna Steve Jobs coi suoi lupetti neri anti distrazione. «Vorrei che riciclare diventasse cool, così le donne potrebbero impiegare più energie per fare altre cose, ricaricarsi, sognare, dormire...», sintetizza bene Arianna Huffington, imprenditrice e sostenitrice del power nap.
E pure la regista Sofia Coppola in una recente intervista ammetteva che una sorta di divisa è una gran comodità. Per lei camicia da uomo, jeans e molto navy: «Se un giorno dovessi scrivere la mia autobiografia sarebbe intitolata: Questo lo avete anche in blu scuro?». Anche la ripetizione è creativa.