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 2019  novembre 23 Sabato calendario

A casa di Roberta Tagliavini

Un giorno Giorgio Armani avrebbe detto a Cate Blanchett che a Milano due sono le cose imperdibili: il Cenacolo e Robertaebasta. Cioè il capolavoro di Leonardo e le gallerie della regina del Novecento, Roberta Tagliavini. Che da più di mezzo secolo (inizia nel 1967) è riferimento indiscusso per le arti decorative del XX secolo. Eclettismo, liberty, quel déco riscoperto con intuito infallibile quando sembrava del tutto dimenticato. Ma anche quel bello non convenzionale, rappresentato da objet d’art squisitamente improbabili, «che nessuno avrebbe il coraggio di scegliere, ma poi tutti comprano», dice. Con formidabile carisma, in un’epoca di scenari omologati del gusto, ha sdoganato la fantasia nell’arte di abitare, contribuendo alla nascita di uno stile trasversale che in Italia non esisteva. 
Un cocktail di preziosismi d’autore, curiosità da Wunderkammer e divertite incursioni nel Kitsch, con cui arreda le case di mezzo mondo. Da quella di Mina («amica di sempre») alla propria. 
Un attico a Brera, fusione di tre piccoli appartamenti più il sottotetto. Due piani inondati di colore e di luce, completati da un giardino pensile selvaggio e un po’ ferino, specchio fedele di questa donna, che non ama nulla di ciò che è addomesticato dalla ragione. Perché sa con Paul Claudel, che «il disordine è la delizia dell’immaginazione». C’è tutta Roberta in queste stanze, collezionista anarchica e non sistematica: «compero per istinto e soltanto ciò che mi piace». Dalla scultura tribale agli eretici del design. 
Piero Fornasetti, per esempio, con i suoi piatti Zodiaco allineati nella stanza da letto, invasa da poltrone d’artista e aureolata dalla testiera neomoresca di un fuoriclasse dell’ebanisteria quale Carlo Bugatti, cognato di Giovanni Segantini. La grande passione? I mobili francesi art déco in materiali rari e pregiati: la vetrina in pelle di squalo, il cabinet in pergamena e pelle verde smeraldo, il tavolo a specchio con zampe leonine. Tutti in sala da pranzo che, in un ribaltamento di convenzioni, fa anche da ingresso. Alle pareti, quadri presi «per l’energia del colore»: Emilio Tadini, Ugo Nespolo, i dervisci di Aldo Mondino, Roy Lichtenstein. 
La signora degli oggetti, di oggetti ne ha venduti a tutti. Primo cliente? Gianni Versace, «una lampada di alabastro anni Venti». Il più sorprendente? George Clooney, «una cassettiera anni Trenta di Guglielmo Ulrich per la villa di Laglio, già sul set di Ocean’s Twelve». I più divertenti? I proprietari di Tequila Cuervo, «arrivarono dal Messico con l’aereo privato; atterrò vuoto e ripartì pieno». I più deludenti? I fratelli Coen, «visita a porte chiuse e soltanto per un paralume». 
Un collezionista ha varcato pure la soglia di casa, portandosi via una trentina di quei vasi in metallo e lacche noti come dinanderie; «non mi attacco alle cose, stanno con me per un po’ per pura gioia dell’occhio, poi le lascio migrare, ma c’è un pezzo che non venderò mai». Il ritratto femminile di Georges Henri Tribout sul camino della sala («ha una forza che mi somiglia»), dove convivono in allegria denti di narvalo, il bar in acciaio anni Cinquanta, un mobile cinese vermiglio asilo di teste africane (c’è anche il ritratto di Josephine Baker) e il divano arancio di Edra, «bello, ma scomodo; sorta di disco orario per l’ospite, accolto con piacere, ma a tempo determinato». 
Il simbolo forse più eloquente di questa casa fatta per ricevere solo in apparenza, in realtà cellula di decompressione e riservatezza («a differenza dei negozi qui, se non voglio, non entra nessuno»). 
Un teatro (la cucina dal soffitto a teli viola come un tendone da circo) a uso e consumo di Roberta. E basta. Il doppio esatto di una vita in vetrina.