La Stampa, 23 novembre 2019
Storia di torture
Il 27 gennaio 1976 due carabinieri vengono uccisi nella caserma di Alcamo Marina. Pochi giorni dopo è arrestato Giuseppe Vesco, 24 anni, picchiato per una notte, legato a un asse e ingozzato di acqua e sale, scosse elettriche ai testicoli, finché non fa i nomi di quattro complici. Uno è Giuseppe Gulotta, 18 anni e pure lui, torturato, confessa. Saranno tutti condannati all’ergastolo. Due fuggono in Brasile, un terzo muore di cancro da detenuto, Vesco si suicida in cella. Gulotta resta richiuso per ventidue anni, e ne servono trentasei perché gli sia riconosciuta l’innocenza: nel 2009 un brigadiere in pensione, che sa delle torture senza averne preso parte, decide di parlare. Gulotta è liberato, nel 2012 assolto nel processo di revisione e nel 2014 la cassazione conferma. Nel 2017 gli vengono riconosciuti 5 milioni di risarcimento per ingiusta detenzione, ma per le torture, i falsi e le frodi processuali deve rivolgersi ai responsabili: gli aguzzini – ancora in vita ma prescritti, perché in Italia non esiste il reato di tortura – l’Arma, il governo. Fin qui è una storia normalmente ignota. Ieri Linkiesta ha aggiornato: l’avvocatura dello Stato, cioè i legali del governo, si oppongono all’ulteriore risarcimento siccome, dicono, Gulotta produce «carte che non dimostrano il fatto dannoso». Quindi non ci furono torture né falsi né frodi, contrariamente a quanto ha certificato la cassazione. Così viviamo in un Paese che sequestra, tortura, altera i processi, si ingoia l’intera vita di un uomo e poi fischietta. Lo si dice casomai l’avvocato del popolo, altresì premier Giuseppe Conte, avesse un quarto d’ora libero.