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 2019  novembre 22 Venerdì calendario

Il pianista siriano

La forza di un’immagine, tragica e poetica, disperante nella sua illusione di promessa: come può esserci un futuro se il presente è così drammatico? Aeham Ahmad suona il pianoforte, le dita corrono sui tasti tra macerie e disperati, la musica coperta dal fragore delle bombe. Simbolo delle atrocità della guerra in Siria, ma anche dell’inestinguibile volontà dell’uomo a non rassegnarsi all’estetica dell’orrore.
Aeham Ahmad è nato nel campo profughi di Yarmouk, a Damasco, un tempo capitale della diaspora palestinese: «Chi nasce lì, nasce da rifugiato, senza nessuna cittadinanza, né palestinese, né siriana. Mio papà fin da piccolo mi ripeteva che dovevo imparare a suonare il piano, mi pareva assurdo, in quella situazione, in un campo di rifugiati grande come una città di 700 mila abitanti. Mi chiedevo che significato potessero avere Mozart, Beethoven, Cajkovskij... A me non piaceva suonare, fino ai miei 16 anni abbiamo combattuto, lui spingeva, io frenavo. Alla fine ho capito che avevo in mano gli strumenti per cambiare la mia vita, come succede a chi studia medicina o legge».
Nel 2012 comincia la guerra civile in Siria: «Noi siamo sempre rimasti al campo, spesso senza acqua né cibo, in una situazione orribile. L’unica via di uscita era la mia musica e così l’ho usata per denunciare la nostra situazione: fino ad allora nessuno conosceva il campo di Yarmouk, i miei video hanno iniziato a girare, quello era il mio scopo». Il campo era sotto assedio, morti e macerie aumentavano, ma lui continuava ad accarezzare i tasti, eroico Don Chisciotte contro mulini che non sparavano vento, ma proiettili. Era pericoloso, non aveva paura? «Non era pericoloso suonare, era la vita comunque a essere pericolosa lì», la risposta che rende la domanda inevitabilmente ingenua. Cosa c’è di più pericoloso della guerra?
È rimasto ferito; una ragazza è stata uccisa davanti a lui mentre suonava; del fratello sbattuto in carcere dal regime non ha notizie; Niraz Saied, l’autore dello scatto che lo ha reso un’icona, è stato ammazzato. In quell’inferno alla fine è rimasto solo per strada con il suo pianoforte. Eppure... «Mi manca quella vita, suonare per 5 o 6 persone per strada, la mia musica aveva uno scopo».
Sono arrivati i jihadisti, gli hanno bruciato il pianoforte: «Nessun rifugiato decide di scappare, sei forzato ad andare via. Non volevo andare in Germania, ma la corrente portava lì. Non sai nemmeno dove stai andando, segui il gregge, come una pecora, non pensi. Ho camminato per 2.500 chilometri». Si stabilisce a Wiesbaden, la sua vicenda aiuta a sensibilizzare la causa della pace – ma la guerra ha sempre ragioni più forti —, il primo concerto l’ha tenuto davanti a 65 mila persone, in tre anni e mezzo ha fatto più di 800 esibizioni. «E con i soldi dei concerti sono riuscito a portare con me mia moglie e i bambini, i miei genitori. E ancora una volta la musica mi ha aiutato: ecco, tornano, i miei strumenti, le mie mani. Certo sono contento per la mia famiglia, ma io non sono più stato felice nemmeno un giorno da quando me ne sono andato da Yarmouk».
Compone le sue musiche, lo stile tra jazz e folk, molta improvvisazione. Il 5 dicembre sarà a X Factor, in un’esibizione molto semplice a cui sta lavorando il direttore artistico del talent di Sky Simone Ferrari, per dare risalto al messaggio – di coraggio, orgoglio e speranza – piuttosto che diluirlo in una scenografia scintillante. «Sarà la mia prima volta in un talent, mi piace l’energia dei giovani. Io non ho talento, davvero. Sono stato forzato a suonare: in Medio Oriente ci sono Arabs Got Talent e X Factor in Libano, ma penso che mi avrebbero cacciato subito con quattro no».
Come si sente a essere un simbolo? «Non mi piace essere una storia, capisco che la mia immagine tra le macerie sia potente, ma sono stanco. La verità è che ho 31 anni ma me ne sento 70, la guerra ti invecchia, quando vedi gente morire in modi tremendi e inumani, avresti solo bisogno di qualcuno che ti cancella i ricordi dalla mente».