la Repubblica, 22 novembre 2019
Vasco Rossi segreto in un film
Vasco, cappuccio in testa, mani sulle spalle di due uomini che lo precedono. Dietro di lui un boato come fosse l’Apocalisse: il film di Pepsy Romanoff,Vasco NonStop Live 018+019 (nelle sale il 25, 26 e 27 novembre in oltre 300 copie) inizia dalla fine. È esattamente l’attimo in cui Vasco scende dal palco, mentre l’adrenalina è ancora a mille, la band continua a suonare e gli applausi esplodono in un’onda incessante. L’idea forte è questa: iniziamo a vedere da quello che non abbiamo visto. Non solo il fronte, ma il retro del palco, quello che nessuno vede mai se non l’entourage più stretto. Adesso i due uomini gli mettono un asciugamano sulle spalle, il cappuccio della felpa tirato su. Stacco. Una pupilla sgranata in primo piano, immagini dei fan, velocissime. Stacco. Vasco, adesso in bianco e nero che sorride e alza le braccia verso il cielo: «Dai, dai, dai, dai, dai!». Sale in macchina. «Fantastico ragazzi». Sdraiato sul sedile. Distrutto. Felice. «Ce l’ho fatta!». Stacco. Fuochi d’artificio, veri, che stanno esplodendo. Vasco ride: «La quinta!», grida. Titoli di testa.
«Abbiamo deciso all’ultimo di girare queste parti, la fine della quinta e della sesta data mentre avevamo già registrato i concerti del 6 e del 7 con ben 23 camere, che costituiscono l’ossatura del film» racconta il regista Giuseppe Romano «lo pseudonimo Pepsy Romanoff me l’ha dato Alioscia, membro fondatore dei Casino Royale, perché diceva che il mio nome suonava troppo italiano, mi ha portato fortuna e l’ho tenuto». Spiega: «La cosa più difficile è sempre decidere come iniziare e come finire anche perché in questo caso volevamo cercare di fare davvero un salto: non la semplice registrazione di un concerto ma un vero docufilm che potesse mostrare insieme alle canzoni anche tutto il lavoro che precede gli spettacoli: la preparazione della scaletta, gli arrangiamenti, le prove con la band. Tutti elementi fondamentali di cui la maggior parte del pubblico non ha percezione». Immagini dello stadio di San Siro vuoto. Vasco: «La musica serve molto a consolare. Non può cambiare le cose ma l’umore sì. E non è poco. È un discorso che porto avanti dal primo concerto che ho fatto e ogni volta è come se lo riprendessi perché è quando la suoni davanti a un pubblico che la canzone diventa viva». La regia di Romanoff è fatta di opposti: una continua alternanza di ultravelocità e lentezza, di cambiamenti di colori e di stili: «Cinque pezzi li ho registrati a 16 millimetri e c’è anche un grande uso della camera a mano: gli arrangiamenti erano punk e volevo che si sentisse quell’energia». Vasco: «Dopo il record di Modena Park o smettevo o ricominciavo da capo, ho scelto la seconda. Mi chiedevo e adesso cosa succede?».
Per gli arrangiamenti l’idea è venuta a Vince Pastano, il direttore artistico e delle chitarre: «Quasi ci litigavo: Vasco è venuto da me con trittico di canzoni che per lui era l’essenza del concerto: Mi si escludeva, Qui si fa la storia e Cosa vuoi da me. Io non ero molto d’accordo, poi però mi è venuta un’idea in maniera quasi casuale perché in quei giorni stavo ascoltando Henry Rollins (il cantante della band punk hardcore Black Flag) e ho pensato che, visto che Vasco voleva mettere in primo piano l’idea di disperazione presente in quei pezzi, quel tipo di arrangiamento era perfetto per ribadire il messaggio che voleva dare: “Per me l’unico modo per svoltare con Mi si escludeva è farla punk, mantenere la tensione per tutto il pezzo”».
E così vedi Vasco che la canta per la prima volta usando la sola voce, un dietro le quinte fantastico perché ti fa capire come nascono le cose. Vasco: «Viene molto più aggressiva! Ok dai!». Racconta: «Io venivo giù dalla montagna e il concetto ieri come oggi è sempre quello: escludere è sempre un problema, anche per quelli che escludono perché tanto alla fine bisogna cercare di includere se no non si va da nessuna parte». Ed ecco che così il punk è stata la cifra dei concerti di Vasco del 2019. Non a caso ha sempre amato i Clash e i Sex Pistols, tanto da omaggiare questi ultimi alla fine di Fegato, fegato spappolato con tanto di sputo. «Credo che sia stata una cosa unica e irripetibile», conclude Romanoff, «lavorare con Vasco è incredibile, ricordo che dopo un po’ che ci eravamo conosciuti mi diede una stretta di mano diversa: non mi strinse la mano ma l’avambraccio. Era una bella stretta, lui è forte, mi colpì. Poi ho notato che usa questa stretta con alcune delle persone di cui si fida. È parte del suo carisma. Ci pensi a cose così, come quando alla fine del tour non saluta». Non saluta? «No. Credo lo faccia soffrire dire addio dopo tutto il tempo passato insieme. Ti dice: “Va bene allora ci vediamo più tardi”. E sai che per un po’ non lo vedrai più». Vasco scende dal palco. Titoli di coda.