il Giornale, 21 novembre 2019
A Londra una mostra sulla storia dell’automobile
«In città gireremo così», prevedeva una copertina della Domenica del Corriere nel 1962 e il disegno di Walter Molino immaginava uomini e donne trasportati da strani veicoli trasparenti, elettrici, non inquinanti. L’anno prima un manuale scolastico giapponese aveva descritto l’ipotetica Tokyo nel 2061, dove i terrestri, e forse non solo loro, avrebbero indossato tute colorate a bordo di navicelle spaziali come al Luna Park.
Era passata da poco la metà del ’900 e parlare di futuro ci sembrava la norma. Come non avrebbero potuto, quelle generazioni sopravvissute a guerre, dittature, stermini e tanta fame, pensare che davanti a loro si sarebbe visto finalmente un domani migliore che poteva toccare la totalità della vita quotidiana? E il sogno si incarnava soprattutto nell’automobile: velocità, tecnologia, stile, filosofia di vita, sperimentazione, progresso.
«Cars. Accelerating the Modern World» parte da qua. La mostra che apre fra due giorni al Victoria & Albert Museum di Londra (e resterà aperta fino ad aprile) non è una rassegna di auto, anzi forse se ne sarebbe potuta esporre qualcuna di più, accanto alla valanga di documenti, fotografie, video, materiali e oggetti che compongono i capitoli salienti nella storia dello scorso secolo. Pochi, in effetti, sono i veicoli di serie – la Jaguar E-Type che è come dire British Style, la 600 Multipla, un brutto ma utopico Suv ante litteram, l’ovvio Maggiolino Volkswagen – accanto a stranezze customizzate, prototipi mai messi in produzione, futuribili estri visionari di architetti e designer. Ma d’altra parte siamo in un museo d’arte, dove ciò che interessa è stabilire le connessioni culturali necessarie a capire un fenomeno così legato all’Occidente, dove fino a pochi anni fa la macchina costituiva il necessario viatico per l’esistenza e la costruzione della personalità del pilota, mentre ora sembra mal sopportata dagli apocalittici dell’ambientalismo, dai fanatici dell’energia alternativa e soprattutto da chi, avendo perduto molto potere d’acquisto, stenta a investire denari per un bene che si usura facilmente.
Nella prima metà del ’900 con l’automobile si identificava il progresso, la vita metropolitana, la modernità. La moda e l’architettura furono le prime discipline ad adattarsi alla rivoluzione. Le donne guidavano eccome e si vestivano da moderne amazzoni, con tessuti tecnici e silhouette aerodinamiche. Il cappello a cloche di Miss Fox ha la rotondità del pomello del cambio, il nostro futurista Thayat disegna gli abiti del domani. Le Corbusier progetta le unità immobiliari per i lavoratori Citroën mentre Pier Luigi Nervi (ma siamo già agli anni ’60), disegnerà i primi autogrill, niente a che vedere con le vecchie pompe di benzina americane.
Il mito del progresso si lega, inevitabilmente, a quello della fabbrica, passato in pochi decenni (da Detroit a Torino) da cuore pulsante di vere e proprie Company Town in cui le persone trovavano occupazione e miglioramento economico, a mostri di alienazione, territorio per aspri conflitti sociali che per la prima volta misero in crisi la ripresa del dopoguerra. Da lì in poi, e siamo intorno al ’68, qualcosa di negativo o comunque di semanticamente ambiguo si è rivolto contro la macchina: il correre avventuroso è diventato pericoloso, la sicurezza sostituisce la velocità e agli inseguimenti di Bullit sulle strade di San Francisco si sostituiscono le campagne di prevenzione, come quella affidata dal governo australiano all’artista Patricia Piccinini e alle sue sculture iperrealiste. E ancora, gli anni ’70 ci avevano detto che il petrolio sarebbe finito, ma le guerre in Medio Oriente furono la scusa per alzare i prezzi, abbassare i consumi, ridurre cilindrate e potenza e immaginare nuovi veicoli all’insegna del risparmio e dei comportamenti virtuosi.
Comportamenti che oggi arrivano a toccare la questione ambientale, nella sua evidente urgenza, per la quale si sta innescando una guerra ideologica contro i motori a scoppio, vecchi, puzzolenti, inquinanti. Ma poiché la guerra, futuristicamente parlando, è la sola igiene del mondo, si potrà ripartire ancora una volta, investire in tecnologia, in nuove teste pensanti ai fini di popolare le città di auto elettriche, silenziose, che finiranno per guidarsi da sole lasciandoci magari il tempo di smanettare sullo smartphone, ma togliendoci il piacere di impostare una curva, un sorpasso e via, liberi come il vento.