Corriere della Sera, 21 novembre 2019
Sul libro postumo di Camilleri “Autodifesa di Caino”
Immaginatevi il Giardino dell’Eden come il commissariato di Vigàta. Siamo sempre a Vigàta quando leggiamo Andrea Camilleri, così come siamo sempre a Macondo quando leggiamo Gabriel García Márquez e siamo sempre a Yoknapatawpha quando leggiamo William Faulkner.
Nel commissariato del Giardino dell’Eden Montalbano è Dio, Fazio è l’Arcangelo Michele, Mimì Augello è il diavolo Alialel, il serpente che tentò Eva e che, in realtà, era un uomo bellissimo travestito da rettile. Ecco come andarono i fatti davanti al famoso albero di mele: «Era bastato quel primo contatto con Alialel per persuadere definitivamente Eva. Allungò un braccio, prese uno di quei pomi, se lo portò alla bocca e taliando occhi negli occhi Alialel gli diede il primo morso. E subito si sentì invadere da una gioia immensa. Divorò il frutto sempre occhi negli occhi con Alialel e questi ne approfittò per possederla a lungo». Mimì Augello in purezza (e come dice un antico proverbio vigàtese: «Cu futti futti e Diu pirduna a tutti»).
C’è anche l’agente Catarella. L’avrei identificato nell’Arcangelo Stefano, il portiere del Paradiso Terrestre. Ma temo che si tratti di un altro travestimento di Mimì Augello. Giudicate voi. A un certo punto della storia, Eva bussa alla porta del Paradiso terrestre in cerca di cibo (sulla terra si muore di fame). L’Arcangelo Stefano si lascia intenerire e, malgrado il divieto divino, va a prendere un po’ di frutta e la consegna a Eva. La donna si china per poggiarla a terra. «Dovete sapere che Eva usava indossare una semplice foglia di fico e solo sul davanti. Facendo quel movimento venne a scoprire all’Arcangelo Stefano una prospettiva inedita. E l’Arcangelo non seppe resistere».
Ma ora parliamo di cose serie. Il commissariato dell’Eden deve indagare su un caso inaudito: un assassinio, la prima ammazzatina della storia. Caino, un agricoltore, ha ucciso suo fratello Abele, un pastore.
È sempre un piacere e un divertimento lasciarsi incantare dalla fantasia e dall’umorismo di Andrea Camilleri. Autodifesa di Caino, il monologo che doveva portare in scena il 15 luglio 2019 alle Terme di Caracalla con lo scrittore protagonista è il primo inedito pubblicato di Camilleri, spentosi il 17 luglio, due giorni dopo la prevista prima.
Nella prefazione al libro, l’editore Antonio Sellerio ricorda, riferendosi alla performance di Siracusa, la felicità che l’attore Camilleri emanava in scena: «Una felicità che non aveva niente di egocentrico, ma al contrario sembrava incarnare la comune possibilità di essere autentici, l’occasione che è di tutti di condurre una buona vita piena di significati».
Alla fine della sua incredibile carriera, Camilleri era tornato al suo grande amore, il teatro. Lo spettacolo di Caracalla, che non vedremo mai, sarebbe cominciato così: «(Entra in scena Caino su una pedana mobile, seduto su una sedia; sottofondo musicale)». E la prima battuta sarebbe stata: «Signore e signori della corte... oddio, che ho detto? Della corte? Scusate, ho avuto un lapsus... Ricomincio. Signore e signori del pubblico, permettete che mi presenti: sono Caino».
Il racconto di Camilleri è tante cose: una lunga deposizione, un dibattimento con testimoni d’accusa e di difesa, un’inchiesta di polizia, un processo completo. I fatti, secondo l’imputato, si svolsero così. Caino coltivava un orto bellissimo, le pecore di Abele glielo distrussero. I due vennero alle mani. Mentre lottano furiosamente, Caino, che sta per soccombere, vede nello sguardo di Abele una luce omicida. Allora si arrende chiedendo pietà. Abele desiste e Caino ne approfitta per aggredirlo a tradimento e ucciderlo con una pietra. Una specie di legittima difesa preventiva. Prima o poi, secondo Caino, Abele lo avrebbe ucciso: glielo aveva letto negli occhi.
Ovviamente non c’è nessun modus operandi stabilito (è la prima volta nella storia), ma Caino fa esattamente quello che faranno da allora in poi tutti gli assassini che vogliono restare impuniti. Disfarsi del cadavere. Tenta invano di seppellirlo ma, come in un horror alla Edgar Allan Poe, «con una sorta di rombo cupo la terra si aprì e il corpo di mio fratello affiorò in superficie». Per quaranta giorni Caino vaga per il deserto, come un pistolero necroforo che sarebbe piaciuto a Sergio Leone, senza riuscire a sbarazzarsi del cadavere. Mentre Caino si aggira con il suo carico di morte, i corvi cominciano a sbranare il corpo di Abele.
Nel processo a Caino, come in ogni processo che si rispetti, c’è il gioco delle aggravanti e delle attenuanti, l’invocazione della capacità di intendere e volere, la ricerca del movente. Pare che un diavolo sia apparso in sogno a Caino suggerendogli di ammazzare il fratello che ha sposato Calmana, la bellissima gemella di Caino (e che, secondo gli usi del tempo, doveva andare di diritto sposa a lui). Il vero movente fu la gelosia? Magari una gelosia incestuosa? Perché, secondo un’altra versione, tra i fratelli ci fu una questione edipica. O Sofocle! O Freud!: Abele e Caino si contendevano il possesso della madre Eva. E, a proposito, ebbe Eva qualche sospetto? Si vocifera di un suo sogno premonitore in cui Caino ammazzava Abele e ne succhiava il sangue. Qui, sulla scena di Caracalla, si sarebbe allungata l’ombra del conte Dracula.
Cavalcando nei secoli (come fece per Tiresia) Camilleri racconta tutte le interpretazioni del proto-assassino e del suo gesto e, per un attimo, entra in scena anche lui, il contastorie: «Ma voi non avete la minima idea di quello che generazioni e generazioni di uomini hanno prima raccontato e poi scritto su di me, ed io, io Andrea Camilleri, sono troppo vecchio per riferirvi tutto».
Ci sono molti Perry Mason che hanno offerto i loro servigi a Caino. Uno dei suoi difensori è stato l’eloquentissimo Giordano Bruno. Secondo la sua arringa, Abele era cattivo e uccideva con piacere sadico le sue bestie delle quali l’animalista Caino aveva compassione. Da qui lo scatto omicida. Un altro Perry Mason di Caino è Gioachino Belli (il più grande poeta italiano post Dante Alighieri?). Belli sa bene che accoppare «un fratello piccinino» è un comportamento da burino, sa bene che Caino è «un carciofarzo de cattiv’odore» (non ho nominato Dante invano), ma chiede lo stesso le attenuanti (alcoliche): «dico pe ddì che cquarche vvorta er vino / pò accecà l’omo e sbarattajje er core».
Nell’epoca dei serial killer Camilleri ha raccontato, in finale di partita, l’inventore dell’omicidio. Lo ha fatto per la voglia di tornare alle radici, all’inizio delle cose, che ha segnato l’ultima parte della sua vita (compreso il ritorno alla prima forma di narrazione, quella orale davanti a un pubblico). Alle radici del male, ma non scordando che senza il male il mondo sarebbe più povero. In conclusione dell’Autodifesaconvoca Orson Welles che pronuncia la celebre battuta del film Il terzo uomo: «In Italia per trent’anni sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in 500 anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù».
Un elogio di Caino come l’elogio di Franti di Umberto Eco? Questo Camilleri lo lascia decidere alla giuria dei lettori.