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 2019  novembre 21 Giovedì calendario

Le cinquecento Escape Room in Italia

Una volta dentro, potete trovarci Sherlock Holmes, Harry Potter, Al Capone, Indiana Jones, Tutankhamon, scienziati pazzi, scope volanti, serial killer, spie russe, fantasmi. Gli incontri, rigorosamente ravvicinati, saranno del tipo che dovete darvela a gambe al più presto e trovare una via di uscita in sessanta minuti. Perché il principio alla base di ogni Escape Room, dall’inglese «stanza di fuga», è che, qualunque sia il tema narrativo, il giocatore trovi il modo di scappare via. Risolvendo enigmi, indovinelli, rompicapo talvolta degni di un ingegnere nucleare (il Politecnico di Torino ha fatto da consulente a diverse strutture) e facendolo in gruppo (se un vostro amico fa il fenomeno è probabile che stia barando e abbia già fatto l’esperienza, perché la percentuale di chi esce al primo colpo nelle sale della catena Intrappola.to è del 2 per cento).
Le Escape Room anche in Italia sono diventate un fenomeno sociale. Non ancora come in Spagna, dove solo a Madrid ce ne sono 300. Da noi sono oltre cinquecento, di cui 270 iscritte all’Associazione italiana giochi di fuga, che dal 2016 cerca di fare da garante, soprattutto a fronte di una carenza normativa. Chi apre una Escape Room, infatti, viene inquadrato in modo diverso a seconda del Comune di riferimento come club, sala giochi, circolo, o chissà cos’altro. «Abbiamo creato l’Associazione per regolamentare il settore e offrire quelle che consideriamo imprescindibili garanzie», spiega Stefano Gnech, 45 anni, vicepresidente dell’Aigf e cofondatore assieme a Daniele Massano di Intrappola.to, la prima Escape Room italiana che oggi è un franchising da 30 punti vendita, con il marchio esportato all’estero. «I nostri requisiti sono 4: niente vetro, per evitare che qualcuno si faccia male; i blocchi non devono essere reali, porte o manette a chiusura magnetica per esempio si possono aprire in automatico se c’è un imprevisto; bisogna chiarire bene al cliente la tipologia della stanza, per far sì che una persona molto claustrofobica o impressionabile non si trovi nell’ambiente sbagliato; e qualità del gioco sempre alta, non ci si può improvvisare con quattro cose prese al volo all’Ikea».
L’improvvisazione è un tema dolente. Neanche un mese fa a Milano sono stati messi i sigilli a una struttura senza corrente elettrica, con uscite di sicurezza coperte e pannelli del controsoffitto in bilico. E l’altroieri, sempre a Milano, una donna che stava «giocando» in una «Casa Maledetta», ha fatto un volo di tre metri dopo che una soletta ha ceduto: si è salvata «finendo» su un divano. Alcuni gestori hanno fatto la scelta di non chiudere a chiave le sale. Come Marco Armentano, del torinese One Way Out, o Matteo Puppis, dell’Escape Challenge di Pordenone, Ferrara e Udine. A Napoli, Livia Berté si è inventata un Escape Room teatralizzata nel Museo del Sottosuolo. Il gioco è intergenerazionale: vanno nonni e nipoti, famiglie, aziende che vogliono fare team building. «Noi abbiamo rapporti con Cnh, Iveco, Banca d’Alba, Intesa San Paolo, Unicredit, Lavazza, General Motors, Mercedes», racconta Armentano.
Nell’ultimo anno in Italia almeno un milione di giocatori sono entrati in una Escape Room, con un fatturato che supera i 10 milioni di euro (l’ingresso va dai 10 ai 20 euro, massimo 6-8 giocatori per stanza). Le strutture più grandi assomigliano a una multisala del cinema. «Il segreto del loro successo sta nel fatto che offrono un’esperienza. Rappresentano una fuga dalla quotidianità, ma anche un modo per socializzare con gli altri», analizza Guido Fraia, prorettore alla comunicazione e all’innovazione dell’Università Iulm di Milano. «Hanno intercettato uno degli asset di fondo del comportamento umano, la dimensione del ludos. Oltre al vantaggio pratico di portare un parco tematico dentro la città».