Corriere della Sera, 21 novembre 2019
La Cina e le centrali di carbone
Sulla strada che porta al controllo del riscaldamento climatico del pianeta c’è l’ostacolo delle centrali a carbone della Cina. Lo si sapeva già, ma questa volta è un’organizzazione non-profit, Global Energy Monitor, a dare un quadro più dettagliato della dimensione del problema. Secondo i suoi calcoli, Pechino ha oggi in costruzione o in via di costruzione una capacità produttiva pari a tutta quella già funzionante in Europa, un totale di 148 gigawatt di nuova potenza contro i 149 esistenti nel Vecchio Continente.
Qual è il «problema» del carbone? Se ci si limita al rilascio di gas serra, a parità di rendimento energetico il carbone produce all’incirca il doppio della CO2 di un altro combustibile di origine fossile come il gas naturale. E se ci si riferisce in particolare alla Cina bisognerebbe anche ricordare che il Paese asiatico ha un parco esistente di centrali elettriche a carbone di circa un migliaio di gigawatt di potenza, secondo i dati dell’International Energy Agency (Iea). È vero che molte di esse sono male collegate alla rete elettrica e spesso funzionano a mezzo servizio. Ma per buona parte sono di recente costruzione, il che significa che potrebbero restare attive per una quarantina di anni, se non più. A meno che Pechino non decida di chiuderle prima, di riconvertirle a biomasse o di dare corso a un massiccio piano di investimenti per il loro miglioramento tecnologico e ambientale.
Investimenti quanto costosi? Allo stato attuale delle tecnologie all’incirca un miliardo di dollari per ogni gigawatt «ritrattato». La stessa Iea ha calcolato che limitare la vita utile delle centrali a carbone mondiali a 25 anni consentirebbe di restare in linea con l’obiettivo di arrivare al 2070 con zero emissioni nette, mentre con una vita «allungata» a 40 anni gli obiettivi climatici sarebbero sforati del 50%. Ma un’azione così drastica avrebbe anche altri costi, come il rischio di lasciare parecchi Paesi a secco di energia e con problemi di sicurezza di fornitura, oltre a mettere in crisi la salute economica delle aziende investitrici.
Il carbone, infatti, non è solo la prima fonte energetica di Cina, India e altri Paesi asiatici. Anche diversi Paesi europei fanno ancora affidamento su di esso, come Polonia, Grecia, Repubblica Ceca. Non ultimo la «verde» Germania, dove malgrado lo sviluppo delle fonti rinnovabili il carbone copre quasi il 30% della produzione di energia elettrica. Curioso invece che negli Stati Uniti, malgrado la politica e la retorica dell’amministrazione Trump, l’elettricità prodotta con questa fonte scenda a livelli che non si vedevano dagli anni Settanta, a tutto vantaggio del gas. Paradossi del mondo dell’energia. Anche la stessa Cina, per altri versi, non può essere del tutto demonizzata: il suo impegno a raggiungere il «picco» delle emissioni di CO2 nel 2030 è stato da poco riconfermato dal presidente Xi Jinping, mentre metà della crescita delle fonti rinnovabili nel mondo al 2040 si dovrà proprio ai Paesi asiatici.