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 2019  novembre 21 Giovedì calendario

Il calcio in Libia

«Ci impegniamo a continuare a giocare a calcio per provare a dare un minimo di stabilità e certezze alla gente, per regalarle dei momenti di tregua in una situazione molto critica». Da tempo Mohamed Alforgany, portiere libico richiamato in nazionale per le gare di novembre, concepisce il calcio come una vocazione che non si può tacere, una missione irrinunciabile capace di porre fine, per quanto possibile e per una manciata di ore ogni tanto, alle sofferenze continue dei cittadini libici.
Dal 2011 la Libia è un orribile teatro di guerre intestine e snodo fondamentale per i migranti diretti in Europa, molti dei quali maltrattati e torturati. In questo inferno che non sembra conoscere fine, lo sport e il calcio in particolare fungono nuovamente da piacevole palliativo.«Prima di essere dei calciatori, noi siamo dei cittadini e combattere lo status quo, cercando di mantenere un certo livello di normalità in Libia è per noi una grande sfida», afferma Alforgany, attualmente in forza all’Al Ittihad di Tripoli. Una sfida non semplice da vincere, come testimonia anche lo storico della Premier League libica. Un campionato tipicamente nordafricano, pieno di passione, che ha dovuto obbligatoriamente fermarsi dal 2011 al 2013 e in altre tre circostanze negli anni successivi – 2014-2015, 2016-2017 e a maggio dell’anno scorso – per l’aggravarsi del conflitto. Il risultato sono solo tre campionati completati dallo scoppio delle ostilità ad oggi.
Dalla cittadina occidentale di Sorman, lontana un paio d’ore dalla Tunisia, a quella orientale di Derna, a circa quattro ore dal confine egiziano, a gennaio 2020 si proverà a ripartire dopo otto mesi di stop. A livello locale, perché nel frattempo le migliori formazioni libiche e le varie nazionali hanno rispettato e stanno rispettando i loro impegni oltre confine. Come l’Al Ittihad di Alforgany, giunto sino al secondo turno preliminare di Confederation Cup, l’equivalente dell’Europa League. E come l’Al Nasr di Bengasi, che ha staccato il pass per la fase a gironi dopo essere retrocessa dai preliminari della Champions League africana e aver eliminato il Proline FC ugandese.
Era dal 2017 che una società libica non accedeva alla fase a gruppi di una competizione internazionale: a riuscire nell’impresa, in un anno in cui in Libia il campionato non si è disputato, è stato l’Al Ahly di Tripoli, poi capace di avanzare fino ai quarti di finale.
La scelta del termine “impresa” non è affatto casuale, perché all’ostacolo rappresentato dai numerosi mesi di inattività, va aggiunta la difficoltà di potersi allenare in territorio libico. Spesso, infatti, i club impegnati in campo internazionale si spostano nei Paesi limitrofi (Egitto e Tunisia) per effettuare sessioni di allenamento. Da sei anni ormai, le città di Alessandria d’Egitto, Il Cairo, Sfax, Tunisi e Monastir, si sono trasformate nella casa internazionale del calcio libico. Solo sabato scorso la Libia ha potuto riabbracciare una squadra estera: l’Al Hilal di Bengasi ha ospitato il Gor Mahia keniota in un’amichevole, un tentativo andato a buon fine per convincere CAF e FIFA a togliere il ban che impedisce alle squadre libiche di giocare in casa.
«Il calcio è uno stile di vita, viviamo in questo ambiente e facciamo ciò che amiamo da quando siamo bambini. Per questo, a maggior ragione, proviamo a trasformare questa situazione complicata in energia positiva da canalizzare in campo. Per noi e il nostro popolo, anche lontano da casa», continua Alforgany, che rivela che, a dispetto delle difficoltà, le squadre tentano di mantenersi in forma allenandosi quotidianamente, anche in solitaria.
Oltre agli storici club – principalmente le due potenze di Tripoli Al Ahly e Al Ittihad, che hanno vinto ventisette dei quarantatré titoli libici dal 1964 a oggi -, anche la nazionale maggiore ha offerto alcune soddisfazioni al suo popolo. Nel 2014 la Libia ha alzato al cielo la CHAN, la Coppa d’Africa riservata ai calciatori che militano nel conti- nente. E lo ha fatto in Sudafrica, il Paese che l’anno prima aveva sostituito, per ovvie ragioni, la Libia nell’organizzazione della Coppa d’Africa propriamente detta. Nel 2012, invece, i Cavalieri del Mediterraneo – così sono soprannominati i calciatori della nazionale – avevano partecipato alla loro terza Coppa d’Africa, un risultato sfiorato nuovamente il 24 marzo scorso, giorno in cui migliaia di libici hanno affrontato la lunga trasferta fino allo Stadio Taïeb Mhiri di Sfax per sostenere i propri beniamini ed esporre la loro disperata speranza con uno striscione eloquente: «Salva un Paese a cui non rimane nient’altro che il calcio. Dio salva la Libia». Sul cammino della Libia ancora una volta il Sudafrica che ha reso vano il gol del pareggio di Ahmed Benali, centrocampista del Crotone, e si è preso la qualificazione all’edizione 2019.
A settembre, Ivan Minnaert, tecnico dell’Al Ittihad di Mohamed Alforgany fino a poche settimane fa, dichiarava alla Bbc che allenare in Libia non è poi così male e che non era preoccupato di uscire a fare una passeggiata o a prendere un caffè per le strade di Tripoli, bensì dell’impossibilità di poter svolgere regolarmente l’attività calcistica. Il giornalista libico Morad Dakhil racconta cosa rappresenta per lui e i suoi colleghi la professione del giornalista sportivo: «Noi giornalisti soffriamo tanto quanto i calciatori e come loro abbiamo una grande responsabilità. Se pretendiamo che il calcio e tutti gli altri sport vadano avanti, dobbiamo sforzarci di essere presenti anche noi per riportare gli eventi alla nostra gente», sostiene orgoglioso e sorridente.
«La Libia è il nostro Paese e noi dobbiamo sacrificarci fino alla fine», conclude Morad, parafrasando il ritornello dell’inno nazionale che paradossalmente contiene il messaggio di speranza di cui il popolo libico ha bisogno al giorno d’oggi: «O patria mia, / attraverso la mia lotta e la mia pazienza imperiale, / scaccia via i complotti e le sventure dei nemici / e salvati completamente. / Noi siamo i tuoi sacrifici, Libia».