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 2019  novembre 21 Giovedì calendario

Pakistani e bengalesi, vite da schiavi nei campi

I primi a squarciare il velo sui clandestini pakistani, furono forse i magistrati di Sassari e la locale squadra mobile. Indagavano su un reato gravissimo, il terrorismo internazionale. Incapparono in un traffico collaudato che dal Pakistan portava a Roma un fiume di gente. Il sistema era semplice: documenti falsi, contratti di lavoro fittizi, nulla-osta che venivano passati di mano, un funzionario corrotto all’ambasciata di Roma. E così, senza sporcarsi nemmeno le scarpe, il problema era risolto. 
Apparentemente, questi pakistani erano stagionali che entravano in Italia per lavorare nei campi dalle parti di Avezzano, Abruzzo. Erano stati coinvolti alcuni agricoltori di lì. Ma poi vi furono problemi con l’ispettorato del Lavoro e con l’Inps. «Le persone sono arrivate - si sentì in un’intercettazione - ma non si sono presentate al posto di lavoro... Non si sono presentati, e ora i datori di lavoro stanno ricevendo delle lettere». 
C’era anche un prezzario: circa 10mila euro per un ingresso garantito in Italia; i cosiddetti "agenti" addirittura rilasciavano ricevuta quando incassavano i soldi per il loro intervento. Si sentiva in un’altra intercettazione: «Ad Avezzano possono essere ottenuti 50 o 60 nullaosta! Quando il nullaosta di una persona viene concesso, noi non lo possiamo dare a lui... lo possiamo dare a te... Dal Pakistan è possibile far venire in Italia un’altra persona con gli stessi documenti, possiamo cambiare il nome, questo si può fare in ambasciata». 
Il trucco era facile. Appena arrivati in Italia, il passaporto originale doveva essere immerso in acqua e poi sporcato d’inchiostro. A quel punto era necessario sostituirlo, e il complice in ambasciata era lì a disposizione. Bastava pagare. 
Gli asiatici difficilmente s’arrischiano ad attraversare il mare, come i migranti clandestini dell’Africa. In ogni caso, devono sempre avvicinarsi alla meta con qualche volo. Un’altra sofisticata indagine, del Ros dei carabinieri e della magistratura di Ancona, ha scoperchiato un’organizzazione di cinesi, con a capo i fratelli Hong Jin Tu e Hong Jin Bang, che risiedono a Pechino, e diversi complici in Grecia, Turchia e Italia. In questo caso, i voli partono dalla Cina, fanno scalo tecnico in Russia, poi arrivano sulle sponde del Mediterraneo per l’ultimo salto verso l’Italia. 
E ancora. Secondo l’indagine "Fake link", del Ros di Udine, c’era una banda di quattro pakistani con base a Milano, che avevano organizzato società fittizie per portare dall’Ungheria in Italia, ma anche Germania e Svezia, loro compatrioti, più bengalesi e afghani, dall’Ungheria.
E’ una modalità ricorrente. Il Rapporto 2019 di Frontex, l’agenzia dell’Unione europea che sovrintende alle frontiere, registra che pakistani e bengalesi arrivano principalmente grazie alla contraffazione di documenti e che gli aeroporti di Istanbul sono la principale porta di accesso. Da lì si diramano via terra (nascosti dentro Tir) o via mare (tanti i velieri condotti da ucraini). Secondo i dati ufficiali, nel corso del 2018 sono stati intercettate 5869 persone lungo la rotta balcanica: 1669 erano afghani, 1017 pakistani, 980 iraniani. 
È una storia antica, in fondo. Due anni fa, la corte d’appello di Trieste ha gettato la spugna e dichiarato prescritta la condanna per Josip Loncaric, cittadino croato con cittadinanza anche slovena, considerato il massimo trafficante di clandestini nei Balcani dagli Anni Novanta. Loncaric, che un tempo era un semplice tassista, e oggi è proprietario di beni e società per decine di milioni di euro, ville, automobili di lusso, un autonoleggio, perfino due compagnie aeree (in Albania e in Macedonia) ha gestito traffici internazionali di clandestini in maniera manageriale e spietata, organizzandoli su rigide basi etniche (filippini, bengalesi e cinesi), con collegamenti in Russia, Ucraina, Croazia e Slovenia. Suo braccio destro, è stata l’ex moglie cinese, Xue Mei Wang, condannata a 5 anni di carcere ed estradata in Italia nel 2002.