20 novembre 2019
Da "La nascita della filosofia" di Giorgio Colli (Adelphi, Milano 1975) (Capitolo 1. La follia è la fonte della sapienza)
Le origini della filosofia greca, e quindi dell’intero pensiero occidentale, sono misteriose. Secondo la tradizione erudita, la filosofia nasce con Talete e Anassimandro: le sue origini più lontane sono state cercate, nell’Ottocento, in favolosi contatti con le culture orientali, col pensiero egiziano e quello indiano. Per questa via non si è potuto accertare nulla, e ci si è accontentati di stabilire analogie e parallelismi. In realtà il tempo delle origini della filosofia greca è assai più vicino a noi. Platone chiama «filosofia», amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legata a un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. E Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i «sapienti». D’altra parte la filosofia posteriore, la nostra filosofia, non è altro che una continuazione, uno sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto «l’amore della sapienza» sta più in basso della «sapienza». Amore della sapienza non significava infatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto. Non c’è quindi uno sviluppo continuo, omogeneo, tra sapienza e filosofia. Ciò che fa sorgere quest’ultima è una riforma espressiva, è l’intervento di una nuova forma letteraria, di un filtro attraverso cui risulta condizionata la conoscenza di quanto precedeva. La tradizione, in gran parte orale, della sapienza, già oscura e avara per la lontananza dei tempi, già evanescente e fioca per lo stesso Platone, ai nostri occhi risulta così addirittura falsificata dall’inserimento della letteratura filosofica. Per un altro verso è assai incerta l’estensione temporale di quest’epoca della sapienza: vi è compresa la cosiddetta età presocratica, ossia il sesto e il quinto secolo a. C., ma l’origine più lontana ci sfugge. È alla più remota tradizione della poesia e della religione greca che bisogna rivolgersi, ma l’interpretazione dei dati non può evitare di essere filosofica. Si deve configurare, sia pure in via ipotetica, un’interpretazione sul tipo di quella suggerita da Nietzsche per spiegare l’origine della tragedia. Quando un grande fenomeno offre una sufficiente documentazione storica solo nella sua parte finale, non rimane che tentare un’interpolazione, riguardo al suo complesso, di certe immagini e concetti, scelti dalla tradizione religiosa e intesi come simboli. Nietzsche parte, com’è noto, dalle immagini di due dèi greci, Dioniso e Apollo, e attraverso l’approfondimento estetico e metafisico dei concetti di dionisiaco e apollineo delinea anzitutto una dottrina sul sorgere e la decadenza della tragedia greca, poi un’interpretazione complessiva della grecità, e addirittura una nuova visione del mondo. Ebbene, un’identica prospettiva sembra aprirsi quando, anziché la nascita della tragedia, si consideri l’origine della sapienza.
Sono ancora gli stessi dèi, Apollo e Dioniso, che si incontrano nel retrocedere lungo i sentieri della sapienza greca. Soltanto che in questa sfera la caratterizzazione di Nietzsche va modificata, e inoltre la preminenza va concessa ad Apollo, piuttosto che a Dioniso. Al dio di Delfi, infatti, se mai a un altro, è da attribuire il dominio della sapienza. A Delfi si manifesta la vocazione dei Greci per la conoscenza: sapiente non è il ricco di esperienza, chi eccelle in abilità tecnica, in destrezza, in espedienti, come lo è invece per l’età omerica. Odisseo non è un sapiente. Sapiente è chi getta luce nell’oscurità, chi scioglie i nodi, chi manifesta l’ignoto, chi precisa l’incerto. Per questa civiltà arcaica la conoscenza del futuro dell’uomo e del mondo appartiene alla sapienza. Apollo simboleggia questo occhio penetrante, il suo culto è una celebrazione della sapienza. Ma il fatto che Delfi sia un’immagine unificante, un’abbreviazione della Grecia stessa, indica qualcosa di più, ossia che la conoscenza fu, per i Greci, il massimo valore della vita. Altri popoli conobbero, esaltarono la divinazione, ma nessun popolo la innalzò a simbolo decisivo, per cui, nel grado più alto, la potenza si esprime in conoscenza, come ciò accadde presso i Greci. In tutto il territorio ellenico vi furono santuari destinati alla divinazione; questa rimase un elemento decisivo nella vita pubblica, politica dei Greci. Divinazione implica conoscenza del futuro e manifestazione, comunicazione di tale conoscenza. Ciò avviene attraverso la parola del dio, attraverso l’oracolo. Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine, il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo: l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza.
Il dio dunque conosce l’avvenire, lo manifesta all’uomo, ma sembra non volere che l’uomo comprenda. C’è un elemento di malvagità, di crudeltà nell’immagine di Apollo, che si riflette nella comunicazione della sapienza. E difatti dice Eraclito, un sapiente: «Il signore, cui appartiene l’oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna». Di fronte a questi nessi, la significazione attribuita da Nietzsche ad Apollo appare insufficiente. Secondo Nietzsche, Apollo è il simbolo del mondo come apparenza, sulle tracce del concetto schopenahueriano di rappresentazione. Questa apparenza è al tempo stesso bella e illusoria, cosicché l’opera di Apollo è essenzialmente il mondo dell’arte, inteso come liberazione, sia pure illusoria, dalla tremenda conoscenza dionisiaca, dall’intuizione del dolore del mondo. Contro questa prospettiva di Nietzsche si può obiettare anzitutto, quando la si consideri come chiave interpretativa della Grecia, che la contrapposizione tra Apollo e Dioniso come tra arte e conoscenza non corrisponde a molte e importanti testimonianze storiche riguardanti questi due dèi. Si è detto che la sfera della conoscenza e della sapienza si connette assai più naturalmente ad Apollo che non a Dioniso. Parlare di quest’ultimo come del dio della conoscenza e della verità, intese restrittivamente come intuizione di un’angoscia radicale, significa presupporre in Grecia uno Schopenhauer che non vi fu. Dioniso piuttosto si collega alla conoscenza in quanto divinità eleusina: l’iniziazione ai misteri di Eleusi difatti culminava in una «epopteia», in una visione mistica di beatitudine e purificazione, che in qualche modo può venir chiamata conoscenza. Tuttavia l’estasi misterica, in quanto si raggiunge attraverso un completo spogliarsi dalle condizioni dell’individuo, in quanto cioè in essa il soggetto conoscente non si distingue dall’oggetto conosciuto, si deve considerare come il presupposto della conoscenza, anziché conoscenza essa stessa. Per contro la conoscenza e la sapienza si manifestano attraverso la parola, ed è a Delfi che viene pronunciata la parola divina, è Apollo che parla attraverso la sacerdotessa, certo non Dioniso.
Nel tracciare il concetto di apollineo, Nietzsche ha considerato il signore delle arti, il dio luminoso, dello splendore solare, aspetti autentici di Apollo, ma parziali, unilaterali. Altri aspetti del dio allargano la sua significazione e la connettono alla sfera della sapienza. Anzitutto un elemento di terribilità, di ferocia. L’etimologia stessa di Apollo, secondo i Greci, suggerisce il significato di «colui che distrugge totalmente». In questa figura il dio viene presentato all’inizio dell’Iliade, dove le sue frecce portano la malattia e la morte nel campo degli Achei. Non una morte immediata, diretta, ma una morte attraverso la malattia. L’attributo del dio, l’arco, arma asiatica, allude a un’azione indiretta, mediata, differita. Qui si tocca l’aspetto della crudeltà, cui si è accennato a proposito dell’oscurità dell’ostacolo: la distruzione, la violenza differita è tipica di Apollo. E difatti, tra gli epiteti di Apollo, troviamo quello di «colui che colpisce da lontano» e di «colui che agisce da lontano». Non è chiaro per ora il collegamento tra questi caratteri del dio, azione a distanza, distruttività, terribilità, crudeltà, e il configurarsi della sapienza greca. Ma la parola di Apollo è un’espressione in cui si manifesta una conoscenza; seguendo i modi in cui nella Grecia primitiva le parole della divinazione si congiungono in discorsi, si sviluppano in discussioni, si elaborano nell’astrattezza della ragione, sarà possibile intendere questi aspetti della figura di Apollo come simboli illuminanti l’intero fondamento della sapienza.
Un altro elemento debole nell’interpretazione di Nietzsche è il suo presentare come antitetici l’impulso apollineo e quello dionisiaco. Gli studi più recenti sulla religione greca hanno messo in evidenza un’origine asiatica e nordica del culto di Apollo. Qui emerge una nuova relazione tra Apollo e la sapienza. Un frammento di Aristotele ci informa che Pitagora – un sapiente appunto – fu chiamato dai Crotoniati Apollo Iperboreo. Gli Iperborei erano per i Greci un favoloso popolo dell’estremo settentrione. Di là sembra provenire il carattere mistico, estatico di Apollo, che si manifesta nell’invasamento della Pizia, nelle parole farneticanti dell’oracolo delfico. Nelle pianure nordiche e dell’Asia centrale è testimoniata una lunga persistenza dello sciamanesimo, di una particolare tecnica dell’estasi. Gli sciamani raggiungono un’esaltazione mistica, una condizione estatica, in cui sono in grado di operare guarigioni miracolose, di vedere l’avvenire e pronunciare profezie.
Tale è lo sfondo del culto delfico di Apollo. Un passo celebre e decisivo di Platone ci illumina al riguardo. Si tratta del discorso sulla «mania», sulla follia, che Socrate sviluppa nel Fedro. Subito all’inizio si contrappone la follia alla moderazione, al controllo di sé, e, con un’inversione paradossale per noi moderni, si esalta la prima come superiore e divina. Dice il testo: «i più grandi fra i beni giungono a noi attraverso la follia, che è concessa per un dono divino … infatti, la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, in quanto possedute dalla follia, hanno procurato alla Grecia molte e belle cose, sia agli individui sia alla comunità». È dunque posto in evidenza sin dal principio il collegamento tra «mania» e Apollo. In seguito si distinguono quattro specie di follia, la profetica, la misterica, la poetica e l’erotica: le ultime due sono varianti delle prime due. La follia profetica e quella misterica sono ispirate da Apollo o da Dioniso (sebbene quest’ultimo non sia nominato da Platone). Nel Fedro in primo piano sta la «mania» profetica, al punto che la natura divina e decisiva della «mania» è testimoniata per Platone dal costituire il fondamento del culto delfico. Platone appoggia il suo giudizio con un’etimologia: la «mantica», cioè l’arte della divinazione, deriva da «mania», ne è l’espressione più autentica. Quindi la prospettiva di Nietzsche non solo dev’essere estesa, ma anche modificata. Apollo non è il dio della misura, dell’armonia, ma dell’invasamento, della follia. Nietzsche considera la follia come pertinente al solo Dioniso, e inoltre la circoscrive come ebbrezza. Qui un testimone del peso di Platone ci suggerisce invece che Apollo e Dioniso hanno un’affinità fondamentale, proprio sul terreno della «mania»; congiunti, essi esauriscono la sfera della follia, e non mancano appoggi per formulare l’ipotesi – attribuendo la parola e la conoscenza ad Apollo e l’immediatezza della vita a Dioniso – che la follia poetica sia opera del primo, e quella erotica del secondo.
Concludendo, se una ricerca delle origini della sapienza nella Grecia arcaica ci porta in direzione dell’oracolo delfico, della significazione complessa del dio Apollo, la «mania» ci si presenta come ancora più primordiale, come sfondo del fenomeno della divinazione. La follia è la matrice della sapienza.