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 2019  novembre 20 Mercoledì calendario

Così Al-Shabaab ordinò il sequestro di Silvia Romano

A un anno esatto dal suo sequestro in Kenya, erano le 19.30 del 20 novembre 2018 nel villaggio di Chakama nella contea di Kilifi (a oltre quattrocento chilometri a Sud-Est della capitale Nairobi, verso l’area costiera di Malindi), ciò che si conosce con ragionevole certezza del destino di Silvia Romano, la cooperante milanese di 24 anni, della onlus Africa Milele, è e resta quanto documentato da due successivi “Rapporti di sintesi” redatti dal “Directorate of Criminal Investigations”, l’autorità centrale di polizia kenyana, il 13 e il 25 dicembre del 2018. Due incarti estremamente dettagliati che Repubblica ha potuto consultare e che appena tre settimane dopo il sequestro, sulla base di testimonianze e di un lavoro minuto di tracciamento di utenze cellulari, ne individuano gli autori materiali, la dinamica, i mandanti. E che, soprattutto, indirizzano il lavoro della nostra Intelligence, l’Aise – con cui quelle informazioni vennero condivise dalle autorità kenyane nel gennaio scorso – e della polizia giudiziaria, il Ros dei Carabinieri, verso gli jihadisti islamisti somali di Al-Shabaab. Quelli che, oggi, il pm Sergio Colaiocco, ritiene continuino ad essere i carcerieri di Silvia. Quantomeno sulla base delle informazioni più recenti raccolte a Mogadiscio e a Nairobi dall’Aise e che il Ros dei carabinieri ha in parte elaborato. Le stesse informazioni che oggi, pur in assenza di una prova di esistenza in vita, fanno dire a fonti investigative e diplomatiche qualificate che «Silvia è viva ma per la soluzione del suo sequestro bisognerà attrezzarsi a tempi lunghi». Quelli con cui, da sempre, Al-Shabaab gestisce i propri ostaggi. Per poter alzare il prezzo della trattativa, sceglierne il momento più propizio. E alla luce dei quali, dunque, un anno, quanto ne è passato, non è un’anomalia.
Per tornare ai due rapporti di polizia del dicembre 2018 – consegnati a Roma la scorsa estate al pm Colaiocco dal Director of Public Prosecutions kenyano Noordin Haji, magistrato che sovraintende a tutte le indagini penali condotte nel Paese – è in quelle carte che sono le prove raccolte a carico di Moses Luwali Chembe, Abdulla Gababa Wario Guyo e Ibrahim Adhan Omar, i tre uomini arrestati poco tempo dopo il sequestro di Silvia come autori materiali.
Due di loro (Moses Luwali Chembe, cittadino kenyano di 31 anni, e Abdulla Gababa Wario Guyo, 32 anni della tribù Orma) sono ancora detenuti a Nairobi. Mentre il terzo, Ibrahim Adhan Omar, per altro ritenuto il più importante, ottenuta la libertà su cauzione, è formalmente latitante dal 14 novembre scorso, dopo avere disertato l’udienza dove doveva comparire come imputato.
Ibrahim Adhan Omar – come si legge nei rapporti del “Directorate of Criminal Investigations” – è un cittadino somalo di 31 anni, nato nel Lower Juba, in una località chiamata Berr Hanni. Nel tempo ha assunto cinque diversi “alias” e, arrivato in Kenya nel 2003, è riuscito a ottenere fraudolentemente la cittadinanza kenyana nel 2007. L’uomo – annota il rapporto – passa da un campo rifugiati all’altro, ma il suo vero mestiere è il bracconaggio e il contrabbando di avorio ricavato dalle zanne di elefante. Ed è del resto proprio a bracconieri e contrabbandieri di avorio, di cui Ibrahim fa parte, che il sequestro viene commissionato da appartenenti ad Al-Shabaab, la formazione islamista che ha raccolto l’eredità jihadista delle Corti Islamiche somale.
«Il bracconaggio e il contrabbando di avorio – si legge in uno dei due rapporti del Directorate of Criminal Investigations – è molto diffuso nella zona del fiume Tana e nella contea di Kilifi. In questa zona (che è esattamente quella in cui Silvia viene sequestrata, ndr. ) la differenza tra somali e kenyani è impercettibile. E va detto che è qui che le milizie di Al-Shabaab si infiltrano e reclutano bracconieri per condurre i loro attacchi». Le mosse di Ibrahim Adhan Omar nel mese di novembre 2018 vengono ricostruite nel dettaglio. Dal momento in cui il sequestro di Silvia gli viene commissionato da un intermediario, tale Said Adhan Abdi, membro della tribù Wardei e autista di “boda boda” (come vengono chiamati i taxi motocicletta in Africa orientale), al reclutamento del commando, alla consegna delle armi – tre Ak-47 e due pistole semiautomatiche – di una moto e di una barca. Quella su cui, dopo il sequestro e un breve tragitto in moto, a Silvia verrà fatto attraversare il fiume Tana per essere consegnata ai carcerieri di Al-Shabaab. Che per lei hanno pensato a una prigione impenetrabile: l’immensa foresta che si stende verso il confine somalo. È anche per questo, nelle prime settimane del sequestro, che l’Aise mette a disposizione dei kenyani dei droni con visori a infrarosso per la sorveglianza notturna di quella foresta. Ma senza fortuna. Perché ad abitarla sono innanzitutto centinaia di animali che confondono ogni rilevazione.
Dicembre 2018, gennaio 2019. È da quel momento, dopo un’iniziale richiesta di riscatto in bitcoin ritenuta dalla nostra Intelligence non attendibile, e dalla presa di contatto con tre emiri qualificatisi come emissari di Al-Shabaab, che tutto diventa più complicato. Anche perché nessuno sembra in grado di fornire indicazioni precise su Silvia, che alcuni testimoni vorrebbero per altro essere rimasta ferita durante il sequestro da uno dei tanti colpi di Ak-47 sparati dai sequestratori. Nel silenzio di questi mesi – chiesto dagli inquirenti per non rendere più complicata la già complicatissima ricerca di intermediari attendibili – si è così alla fine radicata la convinzione che sia a Mogadiscio il bandolo della matassa.
Strada non proprio agevole sia per le difficoltà della cooperazione giudiziaria, sia per la situazione politica interna del Paese. Già, ci vorrà tempo, ripetono fonti qualificate della nostra Intelligence. Con un’assicurazione: «Nessuno ha dimenticato Silvia. E stiamo facendo e continueremo a fare ogni sforzo per riportarla a casa ».