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 2019  novembre 20 Mercoledì calendario

La battaglia di Emma, sopravvissuta alla strage di Parkland

Un fiume in piena, che si ritrova in secca. «Sì ragazzi, ho la depressione». Lei che con le parole ha zittito politici e popstar, dal senatore Marco Rubio a Madonna. Lei che davanti ai microfoni, in occasione della Marcia per le Nostre Vite nel marzo 2018, aveva fatto risuonare il suo silenzio improvviso e interminabile più di ogni possibile blabla, tanti minuti a bocca chiusa quanti erano serviti all’assassino per uccidere 14 studenti e tre insegnanti alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida, il giorno di San Valentino. La vita dei sopravvissuti è andata avanti, come gli appuntamenti con gli omicidi di massa in America. E lei, Emma González, vent’anni appena compiuti, voce e simbolo di quella Mass Shooting Generation che sembrava aver spezzato il teatro della rassegnazione di fronte alle armi facili e alle veglie postume, ai mitra e ai memoriali, ora si trova a dover pensare a sé stessa. Certo non c’è niente che in apparenza vada male. Emma si è iscritta all’università, come aveva sempre desiderato. Ma gli esami sono quotidiani e non si è mai pronti, quando c’è da leccarsi le ferite invisibili, il tatuaggio degli scampati. «Ya boi got depression», ha scritto l’altra sera su Twitter la ragazza di sangue cubano che in Rete si fa chiamare Emma4change.
Cambiamento dove? Con il 4% della popolazione mondiale gli Usa vantano sempre il 42% delle armi da fuoco, che fanno fuoco. Un anno fa, Emma scriveva editoriali appassionati sul New York Times, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento: «Andate a votare, tagliatevi i capelli e piangete ogni volta che ne avete bisogno». Adesso Emma non si piange neanche addosso. Solo i capelli sono gli stessi, corti, a rendere più grandi i suoi occhi marroni. E anche la sua risposta ai messaggi di incoraggiamento e vicinanza che sono fioccati in Rete dopo l’uscita sulla depressione suonano freddi come una diagnosi o un bollettino di guerra. «Anxiety n PTSD».
Non è il silenzio eloquente del suo non-discorso di un anno e mezzo fa. Il Ptsd, il disturbo da stress post-traumatico, prosciuga le energie senza lasciare tracce. L’hanno vissuto e lo vivono i veterani delle battaglie in Iraq o in Afghanistan, e anche coloro che non hanno sparato un colpo. Lo vivranno, prima o poi, anche tanti ragazzi di Hong Kong. Non basta essere scampati, anzi. La vita può essere un’aggravante. Quest’anno due sopravvissuti della scuola di Parkland, due compagne di Emma, si sono suicidate nel giro di una settimana. Lei questa estate aveva già mandato segnali, sempre su Internet. La parola depressione era accompagnata dalla fotografia di un paio di jeans, sulle tasche le toppe con i disegni e le aquile di un’amica creativa: «I feel so profoundly shitty». Dire che ci si sente di merda è già un modo di piangere quando si ha bisogno. Adesso, dietro la foto del suo gatto su Twitter, Emma4change manda un segnale più cupo. Nel rumore del mondo, nell’oceano dei post e dei tweet, tra la maratona elettorale e il circo dell’impeachment, l’America non dovrebbe dimenticare la voce di chi ha saputo parlare con il suo silenzio. E che ha bisogno di tornare a gridare.