Corriere della Sera, 20 novembre 2019
Numeri e danni della burocrazia
La progettazione del Mose risale a quasi quaranta anni fa, e la sua realizzazione a più di quindici; l’opera è quasi compiuta, ma Venezia è nuovamente sott’acqua. Il risanamento ambientale per l’Ilva è stato avviato otto anni fa, ma è fermo. Due procure, Milano e Taranto, sono ora protagoniste di un capitolo importante della politica industriale italiana, mentre il governo cerca una strada per costringere un imprenditore straniero a restare in Italia. Quest’ultimo, a sua volta, si rivolge a un giudice a Milano perché un altro magistrato, a Taranto, ha reso ineseguibile il contratto di affitto dell’impianto. A Roma, ci sono voluti quattro anni per aggiudicare la gara per il rifacimento del manto stradale di piazza Venezia con i fondi del Giubileo straordinario, stanziati cinque anni fa.
Lo studio Ambrosetti ha calcolato in 57 miliardi il costo annuo sostenuto dalle imprese per la gestione dei rapporti con i poteri pubblici. L’artrosi delle istituzioni sta conducendo all’immobilismo.
L’incapacità di decidere sta mettendo non Venezia soltanto, ma tutta l’Italia sott’acqua.
Il primo responsabile del groviglio da cui dipende l’attuale situazione di blocco è il corpo politico. Ormai impegnato in una campagna elettorale permanente, non governa. Sembra anzi impegnato nel peggiorare la situazione. L’impareggiabile Renzi, ad esempio, ha promesso un piano choc di 120 miliardi di lavori pubblici, da realizzare con procedure straordinarie. Non sa che queste, se possono servire in un singolo caso, finiscono in generale per bloccare tutto, perché gli uffici debbono abituarsi ai nuovi percorsi. Il governo ha presentato una legge di Bilancio di 119 articoli, lunga 90 pagine e i senatori si sono affrettati a presentare quasi 5 mila emendamenti. Il Parlamento è diventato amministratore, invadendo con leggi cosiddette auto-esecutive un’area propria dell’esecutivo, per sfiducia nei suoi confronti. Il governo, a sua volta, sforna leggi, ma non si preoccupa di eseguirle (sono quasi 300 i decreti che dovrebbero attuare le leggi approvate durante il governo Conte 1, oltre a quelli che restano dei governi precedenti), mentre alcuni ministri, a tre mesi dall’insediamento, non hanno ancora dato le deleghe ai sottosegretari. Una volta, con buona volontà e con qualche velleitarismo, ogni governo si proponeva di metter ordine nel caos programmato delle strutture pubbliche, per evitare frammentazione di compiti, individuare responsabilità, fare qualche analisi «ex post» delle disfunzioni, anche per evitare eccessive interferenze delle procure. Ora il ministro della Pubblica amministrazione, invece, di fare il suo mestiere, è divenuto un mero distributore di posti.
L’apparato amministrativo, a sua volta, schiavo del patronato politico (i suoi vertici, con lo «spoils system», cambiano al cambiare dei ministri, a piacimento di questi ultimi), è tenuto in gran sospetto. L’Anac ha inventato la «vigilanza collaborativa», un nuovo angelo custode della burocrazia. E, poiché nulla si distrugge e tutto si aggiunge (bloccando), ora la Corte dei conti vuole introdurre suoi controlli di legittimità su aggiudicazioni, affidamenti e varianti di opere pubbliche dello Stato e di enti pubblici nazionali. Questi controlli, previsti da un emendamento alla legge sui ministeri, sarebbero a «sostegno delle amministrazioni», per «favorire la speditezza ed economicità dell’azione amministrativa» e a «tutela dell’amministratore pubblico». Presentano però tre inconvenienti. Vanno ad aggiungersi ai controlli dell’Autorità anticorruzione, che si è ormai impadronita della materia dei lavori pubblici, e a quelli interni, previsti dalla stessa legge (che istituisce una «Struttura tecnica per il controllo interno» al ministero delle Infrastrutture e i trasporti). Hanno carattere preventivo, quindi producono una cogestione, un rallentamento dell’azione amministrativa e una ulteriore deresponsabilizzazione degli amministratori pubblici, senza tuttavia assicurare ad essi quello scudo che sarebbe necessario nei confronti delle invadenti procure penali e contabili. Sarebbero svolti dalla Corte dei conti, un corpo che non ha il personale adatto a verificare i conti (non vi sono né economisti né esperti di ragioneria), alla perenne ricerca di nuovi compiti (ora si interessa delle cerniere del Mose e vorrebbe anche gestire la giustizia tributaria), senza saper svolgere quelli propri.
La burocrazia, additata come il maggiore colpevole, è invece depauperata e debole. È la maggiore azienda del Paese (20 per cento degli occupati), ma negli ultimi dieci anni ha perduto circa l’8 per cento degli addetti. È invecchiata (età media poco inferiore a 51 anni) e mal pagata. Ha perduto tutte le tecnostrutture, che sono state esternalizzate. È composta in larga misura di personale entrato senza concorso o con assunzione di idonei. Non ha né personale preparato dall’università (più del 60 per cento non è laureato), né personale preparato «on the job», né un sistema di valutazione del merito. Minacciata da leggi che mettono in mano alle procure persino la confisca dei beni, ha scoperto l’arte della procrastinazione, se non lo «sciopero della firma», per proteggersi. E la situazione peggiorerà, perché l’ineffabile ministra della Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone, ha dichiarato che «abbiamo prorogato le graduatorie vecchie, quelle del 2011, al 31 marzo prossimo e quelle dal 2012 al 2015 al 30 settembre 2020 e stiamo aumentando la utilizzabilità degli elenchi del 2019» ( Repubblica, 11 novembre 2019). Gli idonei (cioè i non vincitori di concorsi) sono stimati in 85 mila. Questi bloccheranno la strada ai giovani che si affacciano sul mercato del lavoro.
All’elenco delle responsabilità ne va aggiunta anche una più generale e diffusa. L’opinione pubblica si accorge di questo generale malfunzionamento solo quando il problema scoppia. Gli utenti borbottano, mugugnano, si ribellano, ma non propongono o non organizzano la protesta. Lo stesso personale pubblico non fa sentire le «voci di dentro». Prevale sempre il breve termine – come ha osservato su questo giornale il 18 novembre scorso Maurizio Ferrera – anche per questioni che sono di lungo termine.
Ci risolleveremo? Abbiamo bisogno dell’uomo forte, per uscire da questa situazione di blocco? Con l’attuale andazzo, la diffusa incompetenza programmatica e l’improvvisazione, non ci sono molte speranze. Quel che si può dire è che anche Mussolini non riuscì ad affrontare la cosiddetta questione amministrativa, lo riconobbe e ci rinunciò.