il Giornale, 20 novembre 2019
De Chirico contro tutti
«Io sono un uomo eccezionale, che tutto sente e capisce cento volte più fortemente degli altri». «Con quel coraggio indomabile, quella volontà di ferro e quel disprezzo assoluto dell’opinione altrui che mi hanno sempre guidato nella vita». «Anche allora, come oggi, ero io il più buono e il più intelligente di tutti».
Potrei continuare coi virgolettati ma ormai è chiaro: Memorie della mia vita di Giorgio De Chirico (La nave di Teseo) potrebbe sottotitolarsi Elogi e stroncature. Dove gli elogi sono rivolti innanzitutto a sé stesso perché il grande pittore metafisico aveva l’autostima a mille, come oggi nemmeno un rapper americano coi denti di diamante. Le sue sempre roboanti e spesso divertenti affermazioni a volte ricordano Salvador Dalí, a volte Carmelo Bene, a volte Vittorio Sgarbi, di certo nessun pittore italiano vivente. È naturale: nessun pittore italiano vivente può vantarsi di aver creato, tutto solo come ha fatto De Chirico, un fenomeno artistico di rilievo internazionale, e inoltre ogni pittore pennellante oggi in Italia è umiliato dalla marginalità dell’arte, dall’agonia del mercato, dalla crisi della nazione. Difficile autocelebrarsi in queste condizioni. Tuttavia l’inventore della metafisica oltre al genio e al contesto aveva dalla sua il carattere, «le eccezionali facoltà che possiedo io». Gli altri pittori, adesso vengo alle stroncature, a facoltà ovviamente scarseggiavano. E stiamo parlando di mostri sacri (per tutti tranne che per il dissacrante memorialista). Van Gogh è uno «pseudo-genio», Gauguin uno «pseudo-maestro», Cézanne un grande fra virgolette siccome i suoi quadri altro non sono che «crostoni». Simile spassoso vocabolario è usato nella stroncatura di Modigliani, il tipo del «pittore morto di fame, del genio smunto che, in una soffitta gelata, soffre per seguire un suo sublime ideale, sognando il capolavoro che deve procurargli gloria e quattrini e che di solito è un formidabile crostone, come sono appunto le figure e i ritratti di Modigliani, detto dagli snobboni Modì». A questo punto si potrebbe pensare che De Chirico si scagliasse solo contro i morti, risparmiando i contemporanei al fine di evitare guai. Nient’affatto. Nel 1945, anno di pubblicazione delle memorie, erano vivi sia Braque che Matisse, entrambi definiti «fabbricatori di pseudo-pittura», ed era vivissimo Dalí, altro gigantesco immodesto e però, purtroppo per lui, «antipittore per eccellenza». Erano ancora attivi tutti gli altri surrealisti più famosi, «campioni dei campioni dell’imbecillità modernistica». Il superpolemico metafisico si definisce «monomaco, colui che resta solo a combattere e davvero questo libro potrebbero intitolarsi De Chirico contro tutti: oltre che coi colleghi pittori ce l’ha coi critici, con Joyce, con Wagner, coi dodecafonici, coi francesi in blocco e perfino con poeti all’apparenza innocui come Paul Eluard, una faccia tra di onanista e di cretino mistico». Da decenni leggiamo lodi sperticate a Palma Bucarelli: nelle Memorie altro che lodi, la mitologica direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma viene ritratta come «perfida organizzatrice» colpevole di una «profonda incomprensione per quanto riguarda la pittura». Da decenni leggiamo rivalutazioni di Giuseppe Bottai in quanto fascista colto e tollerante ma nelle Memorie il Ministro dell’Educazione Nazionale risulta invece «un protettore di tutti gli analfabeti dell’arte e un valido sostenitore di ogni imbecillità e di ogni snobismo di marca parigina». A proposito di fascismo: De Chirico non era un fascista, non lo era ovviamente nel ’45 ma nemmeno prima perché era piuttosto un conservatore, un anti-avanguardista (sebbene sfiorò l’avanguardia negli anni di Parigi), un anti-politico, un individualista assoluto che anteponeva la propria arte a tutto. Figuriamoci se gli poteva piacere il comunismo di fronte al quale molti artisti si stavano genuflettendo. Nell’edizione ampliata del ’62 (l’edizione seguita dalla Nave di Teseo) inserisce un passaggio rivelatorio contro «i congressi che attualmente organizzano le donne comuniste in favore della pace, con gran sfoggio di colombe più o meno picassiane e invocazioni perché non si fabbrichino più bombe atomiche. In quei congressi però non si dice, ma credo sia sottinteso, che se le bombe atomiche si dovessero fabbricare in Russia e soltanto in Russia, allora andrebbe bene, anzi benissimo e più se ne fabbricherebbero e meglio sarebbe». Sapeva pensare, oltre che dipingere, De Chirico, continuando a farlo anche durante la moda del cervello all’ammasso.