Il Messaggero, 20 novembre 2019
Intervista a Andrea Marcolongo
Andrea Marcolongo torna in libreria con Alla fonte delle parole. 99 etimologie che ci parlano di noi (edito da Mondadori), un libro che rivela e fa affiorare sulla superficie delle pagine, la nuda bellezza delle parole, la loro intrinseca bizzarria. Un viaggio etimologico alla radice della parola libertà, pungolando il lettore senza mai biasimarlo. Il suo libro d’esordio nel 2016, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco (Laterza) è stato un grande successo editoriale con più di 100.000 copie vendute – tradotto in Spagna, Francia, Grecia, Olanda, Portogallo, Croazia, Germania, Corea e in tutto il Sud America bissato con La misura eroica (Mondadori). Narratrice curiosa e giramondo, fra le sue nuove pagine rivela il suo legame molto forte con la Francia partendo dal debito di riconoscenza con l’autrice Jacqueline de Romilly, poiché non è ammessa la pigrizia nel giardino delle parole. «Occorre tagliare, seminare, innaffiare, rastrellare il nostro linguaggio ogni giorno, in ogni momento dell’esistenza».
Da Amicizia e Verderame, da Tradire ad Amare, passando per Oriente e Occidente sino ad Avventura (e ovviamente, Linguaggio), Marcolongo ci invita dentro questo lexikón già in corso di traduzione in diversi paesi – scovando e raccontando la «sentenzia» di novantanove parole, con l’invito a prendere consapevolezza, per riappropriarci delle parole, «usando le più precise, le più taglienti», ecco è questo il modo perfetto per raccontarci al mondo intero. E infine, ancora rivolta a noi lettori, ci invita a concederci il lusso d’essere bizzarri.
Novantanove etimologie da raccontare. Un’impresa ambiziosa?
«Ho in mente da sempre questo libro. Non volevo raccontare il presente o le divergenze con il mondo antico, piuttosto avevo l’intento di diradare le incomprensioni nel nostro linguaggio. Al momento di mettermi a scrivere ho dovuto scegliere quali parole raccontare e svelare. L’unica cosa sicura era la consapevolezza di non voler fare un libro vile. Dunque, niente raccolta di paroline per raccontare il presente o il passato, né avevo intenzione di bacchettare i lettori per il loro modo di parlare o invitarli ad esprimersi in terzine dantesche. Né avevo intenzione di comporre un elogio al parlar forbito, poiché la pedanteria è spesso un sintomo di ignoranza o malafede».
Dunque, con quale spirito si è approcciata alla scrittura?
«Prima di tutto volevo divertirmi. Le novantanove parole le ho selezionate in base alla mia personale curiosità intellettuale e dal piacere che mi davano scoprendole. Il punto principale credo sia il bisogno di fare silenzio attorno a noi per un attimo, per poi provare, tutti insieme, ad esprimerci meglio, usando le parole con maggiore precisione e consapevolezza».
Lei scrive: «Mominare la realtà significa sottrarsi alla confusione». È un atto di accusa contro i social network e il loro linguaggio?
«I social sono sempre sotto la lente d’ingrandimento e ad ogni latitudine ci si interroga sul loro linguaggio. Rivalutare il mito classico e aver cura delle parole non significa giocoforza condannare il nostro orizzonte o denigrare i social. Piuttosto dovremmo prendere di mira la nostra pigrizia. Intendo la pigrizia nello scrivere frettolosamente un tweet o magari, quella sfoggiata scambiando due parole con il vicino di casa alla fermata dell’autobus, senza aver cura di esprimerci al meglio».
Non esistono parole neutrali?
«Decisamente. Non esistono né mezzi neutrali né mezzi colpevoli. Si può avere la medesima incuria su Instagram o vergando una pergamena».
Perché l’arte dell’etimologia si lega alla bizzarria?
«Bizzarro non significa strano o peggio, folle. Bizzarro significa punto, pizzicato. Ovvero recuperare un significato smarrito, colmare il baratro con il linguaggio reale e stupirsi, sentirsi pungere da un significato riscoperto, inedito. Non scrivo di etimologie, altrimenti avrei composto un dizionario vero e proprio. Le etimologie sono un metodo per narrare, una via che al giorno d’oggi può apparire strana per pungolare il lettore e soprattutto me stessa, usando le parole esatte contro la sciatteria».
Poteva essere un libro per bacchettare i lettori sul vero significato delle parole che usiamo tutti i giorni?
«No, sono stanca di leggere libri che mi rimproveravano. Non credo affatto al metodo di far sentire il lettore in colpa per farlo progredire, come se Virgilio avesse bastonato continuamente Dante lungo la Via per spronarlo ad aprire gli occhi. Avevo voglia di accompagnare il lettore, accostarmi senza giudicare».
Veniamo alla voce Tradire?
«La storia umana è fatta di tradimenti, ammettiamolo. Ma non nel senso amoroso quanto nella trasmissione della cultura e del canone letterario che non può essere statico per la sua stessa natura. Il nostro sapere è in costante mutamento e circolando, da lettore a lettore, continua a mutare».
E la voce Migrante?
«Non esitiamo a prendere una posizione umana. Il verbo migrare discende da una radice indoeuropea. Si racconta uno scambio, lo spostamento da un luogo all’altro. È strano, viviamo negli anni dieci del Duemila, abbiamo molti mezzi di trasporto a nostra disposizione, incolpiamo la velocità per l’impoverimento delle nostre relazioni eppure, a mio avviso, viviamo in un orizzonte culturale molto statico, dimenticando il movimento dei popoli e delle lingue».
La parola Libertà è centrale in questo libro e rimanda, come un fil rouge, ad Ulisse e ai suoi precedenti libri. Per lei, cosa significa?
«Siamo sicuri che quel vagabondare di Ulisse in giro per il Mediterraneo significasse libertà? Non ne sono convinta. Del resto, quando Calipso gli offrì la vita eterna, lui rifiutò. Per me libertà significa saper esprimere il proprio pensiero senza ricorrere a parole altrui, senza scivolare nella propaganda. Essere precisi è la più grande forma di libertà».
Diritti tv già venduti, tour in tutto il mondo e un nuovo libro da oggi in libreria. È felice?
«Sì. Non avrei mai pensato di fare delle parole il mio lavoro. Ammetto che è stato difficile prendermi sul serio. Questo libro nasce da una fragilità, mi sono resa conto che ero io, prima di tutto, ad aver bisogno di riappropriarmi delle parole».