il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2019
Intervista a Emmanuelle Seigner
Gran Premio della Giuria a Venezia e gran pieno di polemiche in Francia. A ridosso dell’uscita, l’ex modella e attrice Valentine Monnier ha preso il film in parola, J’accuse, e ha incolpato Roman Polanski di averla brutalmente stuprata in uno chalet di Gstaad nel 1975. L’ufficiale e la spia, titolo italiano, arriva nelle nostre sale giovedì 21 novembre, ad accompagnarlo è l’interprete Emmanuelle Seigner, da trent’anni moglie del regista e musa, da Frantic a Luna di fiele e Venere in pelliccia.
Madame Seigner, che cosa si aspetta dall’Italia?
Il film è uscito cinque giorni fa, ha già fatto 400 mila spettatori, un grosso risultato: spero qui possa avere lo stesso successo. Mi chiedo anche quanto il caso Dreyfus sia conosciuto, da noi J’accuse ha portato in sala i giovani, che ne intendono l’attualità: l’odio, la paura del diverso.
Non è piuttosto il caso Polanski il segreto del successo?
No, lo penso davvero.
(Interviene il produttore Luca Barbareschi: “In Italia del caso Polanski non fotte niente a nessuno, siamo il paese migliore del mondo, siamo sani”.)
Seigner, siamo il paese migliore del mondo?
C’est vrai, è il solo paese che resiste a tutte queste stupidaggini, al gossip.
Il cosiddetto “maccartismo femminista” di cui Polanski sarebbe vittima in Francia e Oltreoceano non c’è in Italia?
No, la gente qui è più rilassata, si sta meglio.
L’interpretazione di Pauline Monnier, l’amante del protagonista Picquart (Jean Dujardin), che cosa porta alla sua carriera?
Mi affidano sempre ruoli provocanti, molto sensuali e sessuali, donne diaboliche, viceversa, qui per la prima volta interpreto una donna d’epoca, del tutto normale, molto borghese. Finalmente non sono la solita femme fatale.
Donna, attrice, madre, moglie di Roman Polanski, che cosa le è più difficile oggi?
Dimentica rockstar: ho un gruppo rock, L’Épée. Siamo in tour mondiale, tra poco andiamo in Inghilterra, dove siamo in classifica all’ottavo posto.
Però non ha risposto.
Lo sa benissimo che cosa mi è difficile, ma non ho nessuna intenzione di parlarne.
Non vuole parlare di fatti privati, va bene, ma qui si tratta di questioni pubbliche, di più, di libertà d’espressione. Come i suoi colleghi Louis Garrel (Alfred Dreyfus) e Dujardin, anche lei ha dovuto soprassedere alla promozione di J’accuse: inevitabile?
Ho un grosso problema con il meccanismo della denuncia. Mi ricorda ore molto buie del nostro passato, quando si diceva “C’è un ebreo nascosto al primo piano!” e si usava la denuncia per ammantarsi di gloria. Trovo che oggi nel mondo questo problema esista e mi fa molto paura.
E il #MeToo?
Porta avanti una battaglia giusta, ma il problema delle molestie non è tanto nel cinema quanto in altri ambienti: le attrici sono protette, le donne che lavorano nei supermercati no.
A che film sta lavorando?
C’è un progetto, ma ancora campato per aria. Però posso dirle quali sono i miei quattro criteri per accettare una parte: ruolo rilevante, grande regista, causa importante, tanti soldi.
Tutti e quattro?
(Ride) No, non servono tutti, basterebbe soddisfarne uno o due. Appunto, in J’accuse ne ho centrati due: grande regista e grande causa.
Lei che lo conosce bene, come Polanski è diventato grande?
Il cinema gli ha permesso di sopravvivere all’Olocausto, gli ha salvato la vita. Poi Roman ha fatto un’ottima scuola di cinema, quella di Łódz: questi due elementi insieme, credo, l’hanno reso un eccellente regista. Ma è difficile dire perché, come lo è per un grande chef, c’è qualcosa di complesso e misterioso che li fa diventare persone particolari. Ah, anche in Italia avete ottimi registi.
Faccia i nomi.
Be’, ieri dico Fellini, oggi Garrone, Sorrentino e Guadagnino.
Torniamo a Polanski, che di fonte a “storie assurde di donne mai conosciute che mi accusano di cose accadute, in teoria, più di mezzo secolo fa” ha asserito di non volersi difendere: “Per fare cosa? Sarebbe come combattere contro i mulini a vento”. Seigner, concorda?
Non sono il suo portavoce, ma no, non sono d’accordo: dovrebbe difendersi.
La sua Pauline e l’ultima accusatrice di suo marito condividono il cognome, Monnier: uno scherzo del destino?
Oui, c’est bizarre. Ma questo film resterà nella storia del cinema, il resto no.