il Giornale, 19 novembre 2019
Il portiere che subì il gol numero 1.000 di Pelé
Il dispaccio d’agenzia attraversò la notte e gli oceani arrivando come un fulmine sui tavoli delle redazioni europee che a quell’ora, a mezzanotte meno un quarto, stavano mandando in stampa i giornali. Recitava: «O’Rey ha superato l’ultimo confine: a Salvador, nello stato di Bahia, Pelè ha segnato il suo gol numero 1000 nella partita pareggiata dal Santos per 1-1...». Panico totale. Come dire: realizzato il primo trapianto di cuore umano. Oppure: le fiamme divorano il Louvre.
Perché per il Brasile quel gol non è un semplice dato statistico, ai mille gol era già arrivato Arthur Friedenreich e ci arriverà Romario, ma la festa di Nostra Signora di Aparecida o il Dia da Indipendencia, una festa nazionale, una ricorrenza religiosa, un momento da consegnare per sempre alla Storia del Brasile. Perché Pelè non era solo Pelè ma il Cristo Redentore sulla montagna del Corcovado, una divinità che correva verso il cielo a braccia aperte e dove il miracolo del gol correva di bocca in bocca gonfiandosi come un fiume in piena ad ogni passaggio, una divinità nutrita dalla tradizione orale e dalle radiocronache con i gol dalle vocali che non finivano mai. «Prima della partita mi son detto: è fatto di carne e ossa come tutti gli altri – lo raccontava Tarcisio Burgnich dopo la finale mondiale del Settanta – Ma mi sbagliavo...»
Edgardo Norberto Andrada, detto El Gato, come il portiere di Osvaldo Soriano, si lasciò sfuggire un sorriso. Per fortuna quel carnevale non sarebbe toccato a lui, portiere del Vasco da Gama, che Pelè doveva incontrare tre giorni dopo quella partita, al Maracanà. Perché per celebrare quel gol mandato da Dio erano previsti fuochi d’artificio, sfilate per la città, feste in campo, emissione immediata di un francobollo speciale e inaugurazione di un cippo seduta stante, un Carnevale di Rio senza freni, né limiti. E lui preferiva non esserci visto che era pure argentino.
Era la prima volta che Edgardo giocava in Brasile, dopo aver difeso per dieci anni la porta del Rosario Central, la squadra del suo paese, e negli anni avrebbe conquistato due campionati. Non era un portiere qualunque: sarebbe stato lui il guardiano dell’Albiceleste ai Mondiali del 1974 se un infortunio non lo avesse bloccato al palo. Andò Carnevali. Avrebbe giocato fino a 45 anni, ritirandosi quando l’Italia di Bearzot vinse il Mondiale. La sua ultima squadra si chiamava «Renato Cesarini», quello che battezzò i gol all’ultimo minuto. Una squadra con un nome e un cognome.
El Gato si gelò la mattina dopo quel dispaccio. «Un errore tecnico ci ha fatto trasmettere una notizia inesatta: quella del millesimo gol di Pelè. Il gol in realtà lo ha segnato Jair Bala, Pelè ha preso un palo. Caldamente ce ne scusiamo». C’erano anche, ad accompagnare le scuse, le dichiarazioni di O’Rey: «Sono spiacente ma le grandi parate del portiere mi hanno impedito di coronare il mio sogno. Ritenterò mercoledì». Mercoledì 19 novembre 1969, cinquant’anni fa giusti. Contro El Gato.
Raccontano le cronache che l’aria profumasse di primavera, che gli spettatori paganti, contati, fossero 65.157, anche se lo stadio era pieno di gente persino dietro le porte, e che il Vasco da Gama mandò in campo cinque difensori uno dei quali, Renè, con il preciso compito di non fare vedere palla a Pelè. C’era riuscito così bene che era stato lui con un’autorete a pareggiare per il Santos il vantaggio che Beneti aveva regalato al Santos. Andrade non ne aveva fatta passare una, anzi a Pelè era andato a prendere pure una palla all’incrocio. Mai come quella sera indovinava la traiettoria del pallone nel labirinto quasi infinito delle varianti possibili: voleva essere più forte del destino, voleva essere più forte di Pelè.
Ma era il Maracanà, la Notre Dame del calcio, si festeggiava il Giorno della Bandiera, c’era la targa pronta da svelare e quindi il giorno non poteva che essere quello. Al 32º del secondo tempo, come impose volontà divina, c’è fallo in area su Pelè, per l’arbitro, e per tutti, è rigore netto. Sono le 23.23 locali, l’ora del destino che batte sui cieli della Patria. L’ora in cui lo stadio viene giù.
Ci provò, Andrada, a fare il furbo, a tagliare la strada al destino. Piantò i tacchetti sul dischetto per scavare una buca e così fece Fidelis, il suo terzino destro. «Quando andai per tirare – racconta la Perla nera – per la prima volta in vita mia le gambe mi tremarono». Tirò infatti un piatto timido ma preciso sulla sinistra del Gato che sfiorò la palla senza impedirle di diventare mito. Si infilò come un colpo di vento nella breccia di un muro, non andò come il rigore più lungo del mondo di Soriano per un unghia, perse l’attimo fuggente prendendo a pugni il campo. «Non volevo subire quel gol – racconterà anni dopo – ma con il tempo mi ci sono abituato e l’ho adottato come un figlio». Sentiva di aver vissuto, opponendosi con tutte le forze, uno dei momenti cruciali della sua esistenza.
Per sfollare la marea di gente che aveva inondato il campo come uno tsunami ci volle un quarto d’ora buono, per farla finire il Santos fu costretto a sostituire il suo re. Disse: «Dedico questo gol a tutti i bambini poveri del Brasile» e sfilò con una maglia del Vasco con il numero 1000 sulla schiena, preparata da ore. Era la squadra per cui tifava da ragazzino, il cerchio che si chiude.
Andrada se ne è andato il 4 settembre di quest’anno, forse non voleva più raccontare di come era entrato nella storia dalla porta di servizio, per aver preso un gol e non per averlo evitato. Lo chiamavano El Gato perché non era tanto alto, le acrobazie sostituivano i centimetri, e la Storia gli aveva chiesto un conto più salato di quello pagato al re del pallone. Lo accusarono di essere un killer al soldo della dittatura argentina, di aver partecipato all’esecuzione di due oppositori del generale Videla, Osvaldo Agustin Cambiaso e Eduardo Pereyra Rossi. La giustizia argentina lo sollevò da tutte le accuse ma non lo liberò dal sospetto. Non ci sono dubbi invece che fosse una spia della Civilian Intelligence Personnel, il servizio segreto argentino. Nei fascicoli che lo riguardano c’è scritto perché era perfetto come informatore: «La sua popolarità incoraggia la fiducia soprattutto nei quartieri dei lavoratori, il che facilita la sua penetrazione in quegli ambienti». Parlavano con lui perché si fidavano.
Dicono che in realtà le 1281 reti di Pelè siano 757, che la millesima, sostengono altri, la segnò ma due anni dopo, nel 1971 non nel 1969, ma quello resta il gol del secolo, il più mediatico di sempre. Scriveva il poeta De Andrade: «Non è difficile segnare mille gol come Pelè, è difficile segnare un goal come Pelè...». De Andrade. Quasi come El gato.