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 2019  novembre 19 Martedì calendario

Gilet Gialli, tanto rumore per nulla

Tutto è iniziato un anno fa, il 17 novembre 2018. Erano le 7.30 del mattino. A quell’ora, alcuni manifestanti si radunarono a Porte Maillot, a Parigi, poi bloccarono la Périphérique, la tangenziale della capitale. Indossavano un giubbotto ad alta visibilità, di colore giallo. Ben presto, in quella giornata fredda ma soleggiata, molte strade e rotonde del paese furono bloccate, mentre lunghi cortei sfilarono nelle principali città: è così che emerse, quasi dal nulla, il movimento dei Gilets Jaunes. Per mesi, ogni sabato, hanno dominato le cronache del Paese.
Vanno avanti ancora oggi, ma stancamente. Un anno fa, invece, esordirono con un bang!: 1,3 milioni di persone, secondo le stime del sindacato France Police-Policiers en colére, dopo una convocazione sui social networks. Protestavano contro il presidente Emmanuel Macron, l’aumento di tariffe e tasse sulle auto e sui carburanti e la politica francese. Tutta.
Quei numeri sono lontani. Ogni sabato i giubbotti scendono in strada e si scontrano con la polizia ma secondo i dati del collettivo Le Nombre Jaune sono 10-20mila persone. Solo per celebrare l’anniversario sono arrivati a 44mila. In alcuni casi sostengono ormai altre cause e altri manifestanti: i pompieri in sciopero, la popolazione cilena, le vittime di islamofobia. Una fine triste per un movimento che voleva ridisegnare la politica francese.
È stato però per mesi un movimento davvero popolare. I numeri sulla partecipazione sono contestati (il governo non ha mai “contato” più di 287mila persone), ma sono chiari quelli sul sostegno tra i francesi: i sondaggi di un anno fa indicavano un gradimento superiore al 65%, con punte al 75%. Da marzo in poi è però calato sotto il 50%. Le violenze hanno allontanato molti consensi, come l’inconcludenza del movimento.
Nel fenomeno dei Gilets Jaunes si sono infatti sovrapposte diverse istanze, che hanno tentato di coagularsi in un unico movimento, senza riuscirci davvero. I primi organizzatori avevano, come obiettivo polemico, l’aumento delle tasse sui carburanti. Per la Francia era un problema. È un paese molto vasto con una popolazione che vive in comuni molto piccoli (sono oltre 35mila!) ma lavora in centri più grandi: 45 minuti è il tempo medio per raggiungere l’ufficio. Le proteste hanno però da subito cavalcato anche il tema della riduzione del potere d’acquisto.
La situazione economica del Paese, in realtà, non era così grave: a “soffrire” davvero sono i genitori single e i pensionati più poveri. Le prime riforme di Macron, rivedendo e riducendo i contributi sociali, avevano però finito per aumentarli sulle pensioni, delle quali era stata anche sospesa l’indicizzazione al costo della vita.
A ben vedere, è stata proprio l’avversione per il presidente che ha coagulato il movimento: la richiesta urlata di dimissioni è stata la colonna sonora di tutte le manifestazioni. Hanno pesato le ripetute gaffes di Macron, espressione del classico disprezzo sociale per i più deboli delle élites francesi; la sua politica a favore dei “primi di cordata”; le misure a sostegno di aziende e grandi manager; e soprattutto l’abolizione della tassa sulle fortune, la patrimoniale. Così, Macron è presto diventato “il presidente dei ricchi”: ha premiato i più abbienti, ha annunciato riforme a favore dei più poveri e ha dato l’impressione di dimenticare le classi medie. La sequenza delle sue riforme era sbagliata.
A sentirsi abbandonati sono stati soprattutto i piccoli centri che subiscono la chiusura di scuole, ospedali – il désert medical è un problema da anni – e uffici postali. Il ministro dell’Interno Gérard Collomb, oggi sindaco di Lione, aveva presto avvertito il presidente del montare della rabbia sociale nelle province, ma non è stato ascoltato. 
Per Macron è stato allora molto difficile disarticolare i motivi di scontento. Con un primo discorso alla nazione a dicembre ha aumentato i salari minimi, ha azzerato l’aumento dei contributi sulle pensioni e ha detassato i bonus aziendali (poi riconosciuti da molte aziende). 
Non è bastato, però. Le proteste sono continuate anche se il cuore delle rivendicazioni si è spostato alla politica. Il progetto di creare una democrazia diretta e partecipata, attraverso un Référendum d’initiative citoyenne, è diventato centrale. In questa fase è però anche diventato evidente che il movimento era elettoralmente sterile: i tentativi delle opposizioni di cavalcarlo erano falliti, mentre mancava (a parte qualche iniziativa individuale)il desiderio di formare una lista per le imminenti elezioni europee, ma anche quello di dialogare con le forze politiche. Le proteste hanno quindi perso mordente, hanno visto allontanarsi i più moderati, ma a marzo ancora radunavano circa 100mila persone.
Macron nel frattempo aveva anche lanciato un Gran débat national: ha visitato tutte le regioni, incontrando i sindaci discutendo con loro di temi quotidiani, dalle scuole alla coltivazione degli ortaggi. Poi, il 25 aprile, ha tirato le fila di questa immersione nel paese reale. Ha annunciato un nuovo patto territoriale, che impedisce la chiusura di scuole e ospedali senza un’intesa con i sindaci, e misure economiche per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie: tagli alle imposte per le classi medie, il ritorno dell’indicizzazione per le pensioni sotto i 2mila euro e una riforma delle agenzie per il lavoro, i Pôles emploi, a favore delle madri lavoratrici. Poche le concessioni ai Gilets Gialli: alcune riforme costituzionali, tra cui un referendum a iniziativa popolare. Soprattutto non è stata reintrodotta la patrimoniale.
Da allora il movimento si è ulteriormente sgonfiato. Il gradimento del presidente, che era sceso fino al 25%, è poi risalito fino al 32-33% medio, con punte al 40-42% e minimi al 28%. Per le presidenziali del 2022, Macron gode da febbraio di un 56-57% dei consensi al secondo turno. 
Dopo un anno, i costi delle proteste si sono rivelati elevati: dieci persone sono morte, tre tra i Gilets e sette tra gli automobilisti, a causa dei blocchi stradali e dei tentativi di forzarli. Gli scontri con la Gendarmerie, che usa dissuasori piuttosto violenti, hanno fatto – secondo il ministero degli Interni – 4mila feriti tra manifestanti e forze dell’ordine. Migliaia i fermati.
Meno intense le conseguenze economiche: la Francia ha registrato ritmi di crescita superiori a quelli medi di Eurolandia. Elevati però i danni a negozi, ristoranti e automobili, all’arredo urbano, alla segnaletica stradale e ai rilevatori di velocità.
Il bilancio politico è infine davvero gramo, per i manifestanti. Le richieste dei Gilets hanno incontrato poca fortuna. Macron invece è riuscito a trasformare le proteste in un’occasione per correggere la sequenza sbagliata delle proprie riforme e venire incontro alla classe media e alla provincia francese. Il suo gradimento resta basso, ma da nove mesi i sondaggi sulle prossime presidenziali lo danno, stabilmente, vincente al secondo turno.