ItaliaOggi, 19 novembre 2019
Il tabacco ormai è andato in fumo. Intervista a Finato Martinati
Era il 25 gennaio 1984 quando Giorgio Bocca, di passaggio a Concamarise, lasciò sul libro degli ospiti questa dedica per il padrone di casa: «Finalmente ho capito quanto lavoro e intelligenza e organizzazione ci sono dietro il fumo azzurro di una sigaretta. Compresa la simpatia umana del signor Finato». Fosse ancora vivo, a distanza di 35 anni il famoso giornalista non potrebbe più scrivere quello che si legge nel suo saggio È la stampa, bellezza! (Feltrinelli): «L’America è qui, sta anche dalle parti in cui il dottor Finato e altri coltivano il tabacco. Nelle terre umido-calde americane, il tabacco lo puoi seminare, qui devi farlo nascere in vivaio e trapiantarlo».Tra Bovolone, Sanguinetto e Cerea, nella Bassa veronese che più bassa non si può, oggi è rimasta solo la simpatia umana di Guido Finato Martinati. Del tabacco, nessuna traccia. Fermi i trattori telescopici, le macchine semoventi e le 25 trattrici Fiat, Case e New Holland. Spenti i 42 forni di essiccazione che in otto giorni trasformano le foglie in tabacco pronto da trinciare. Il padrone delle terre accarezza una foto che raffigura una coltivazione a perdita d’occhio di Virginia bright, con il torrione della Villa Verità Malaspina Finato Martinati, risalente al XV secolo, sullo sfondo della tenuta agricola: «Guardi che bel colore, un verde che vira sul giallo oro. Infatti “bright” significa scintillante». E si consola desolato: «Quest’anno tutto distrutto da una grandinata. Meglio così, mi verrebbe da dire. Ormai si prende di più dalle assicurazioni, anche se coprono solo il 70 per cento dei danni per eventi atmosferici, che non dalle multinazionali del fumo».
Finato Martinati era arrivato a coltivare fino a 180 ettari di Virginia bright aromatico, la miglior qualità presente in Europa. Oggidì gli ettari destinati ad andare letteralmente in fumo si sono ridotti a 30. «Ma l’anno prossimo, se la politica dei prezzi resta questa, potrei smettere e seminare dell’altro». Addio a 500.000 chili secchi «made in Concamarise». Che, quando non tempesta, finiscono alle multinazionali del settore, le quali ci ricavano mezzo miliardo di sigarette, cioè 25 milioni di pacchetti con i marchi più famosi: Marlboro, Camel, Pall Mall, Mild Seven, Benson & Hedges, Salem, Winston.
A questi 180 ettari di sua proprietà, l’imprenditore ne ha uniti altri 120 presi in affitto, che lo obbligano a girare nei campi (senza casco) con la sua Sukuzi 650 Dakar e completano la diversificazione agricola con mais, patate, soia da seme, frumento per alimentazione animale, cui si aggiungono riso, mais Marano, fagioli e zucche provenienti dalle piantagioni biologiche dell’azienda intestata alla moglie Marialuisa Catani, ispettrice regionale delle infermiere volontarie della Croce rossa italiana, imparentata per parte di madre con Giorgio Marani, il presidente che fece grande la Banca popolare di Verona, indicando in Giorgio Zanotto il suo erede.
Quello che Bocca chiamava «signor Finato» è un gentiluomo che di cognomi in realtà può sfoggiarne ben tre e, se è vera la leggenda secondo cui Concamarise significa, fin dal 1144, Conchamaris, cioè «conchiglia di mare», il terzo non appare per nulla usurpato: Venier. Origini veneziane, dunque. Anzi, serenissime: sua bisnonna discendeva per via materna da Sebastiano Venier, l’ammiraglio della Serenissima, già podestà di Verona, che il 7 ottobre 1571 sconfisse i turchi nella battaglia di Lepanto e poi fu eletto doge.
La storia s’intreccia con la vita di Guido Finato Martinati. Il padre della bisnonna paterna, Pietro Paolo Martinati, fu eletto deputato nel 1867, l’anno dopo l’annessione di Verona al Regno d’Italia, ed è ricordato nella toponomastica cittadina da una strada. Il padre della nonna paterna, Antonio Guglielmi, fu sindaco di Verona per due volte, dal 1883 al 1887 e dal 1895 al 1907. Il prozio Lotario Finato, medico chirurgo, fu il primo sindaco di Concamarise nel dopoguerra. Il padre Pietro, ingegnere civile, sposò Angela Delser, appartenente alla famiglia friulana che dal 1891 produce wafer e biscotti. Il maschio di casa nacque nel 1935, subito prima che il genitore partisse per la Libia italiana, dove si distinse nella costruzione di molte opere. Al ritorno in patria, quattro anni dopo, l’ingegner Finato fu nominato consigliere del neonato Iacp, l’Istituto autonomo case popolari.
Quanto a incarichi pubblici, il figlio Guido non è da meno: è stato vicepresidente nazionale dei Giovani agricoltori, presidente dell’Unione provinciale agricoltori, vicepresidente nazionale dell’Associazione professionale trasformatori tabacchi italiani, componente del Consiglio economico della Confagricoltura e del Comité consultatif du tabac brut et de son groupe paritaire a Bruxelles, vicepresidente della Fiera di Verona e del Consorzio di bonifica Valli Grandi e Basso veronese, presidente della Cooperativa tabacchi, presidente della Perfosfati di Cerea. Oggi è vicepresidente nazionale dei Cavalieri del lavoro e presidente di quelli del Triveneto.
Al palazzo avito di Verona con la facciata affrescata da Andrea Mantegna, che sorge nella piazzetta a fianco della Porta Borsari, Finato Martinati preferisce l’altrettanto monumentale fattoria di Concamarise, dove gli tengono compagnia una trentina di gatti, due ubiqui bassottini e 480 frisone da latte.
L’ultima volta che sono stato qui, 15 anni fa, nelle stalle si spandevano le note di Mozart.
Mungiamo le mucche tre volte al giorno. Allora pensavo che la musica classica facesse aumentare la produzione di latte, ma la nostra esperta Paola Aguzzi, dal 2008 responsabile della stalla, mi ha spiegato che le mucche hanno bisogno soltanto di tranquillità e accudimento. Così ho spento gli altoparlanti e adesso Mozart lo ascolto io, in casa.
Si sente più veronese, più veneziano o più concamarisano?
Veronese, veneziano, concamarisano e ceretano, perché sono nato a Cerea. E soprattutto italiano. Al presidente Sergio Mattarella, che pochi giorni fa mi ha ricevuto al Quirinale per la cerimonia di consegna delle insegne a 25 nuovi cavalieri del lavoro, ho detto: quando lo scorso 21 giugno lei è venuto in Arena per La Traviata che ha inaugurato la stagione lirica e gli spettatori si sono alzati in piedi, tributandole un’ovazione interminabile, mi sono sentito italiano. E orgoglioso di esserlo.
A che serve la laurea in Giurisprudenza per fare l’agricoltore?
La mia vocazione iniziale era per la carriera diplomatica.
Come le venne?
Mio padre frequentava i Giusti del Giardino e i Pignatti Morano di Custoza, che hanno dato molti ambasciatori al Regno d’Italia e alla Repubblica. Mi lusingava l’idea di seguire le loro orme. Ma papà fu irremovibile: dovevo diventare ingegnere come lui. Perciò mi mandò dal suo collega Alberto Minghetti, che aveva ricostruito il ponte di Castelvecchio. Era considerato il dio del calcolo nel cemento armato. Gli bastò poco per inquadrarmi: «Meglio che ti iscrivi ad Architettura». Così feci.
Dove?
Al Politecnico di Milano. Per compagni di studi avevo il figlio di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, progettista della Torre Velasca. E anche Pietro Fagnoni, figlio del preside della facoltà di Architettura di Firenze, e il fratello di Giovanni Spadolini, futuro premier e presidente del Senato, Pierluigi, che sarebbe diventato un famoso architetto e designer. Ma fu tutto inutile. Bocciandomi per la seconda volta all’esame di geometria descrittiva, la professoressa Giuseppina Biggioggero concluse: «Lasci perdere, non è la sua strada». Quasi sollevato, corsi a dirlo a mio padre, informandolo che intendevo iscrivermi a Scienze politiche. Risposta: «E se poi non passi il concorso per la Farnesina? Meglio Giurisprudenza. Almeno puoi diventare avvocato o notaio».
Ed eccola qua, giureconsulto del tabacco.
Quando presi in mano la proprietà, su preghiera di mio padre gravemente malato, era quasi tutta condotta a mezzadria. Oggi è una moderna fattoria. Dai pannelli fotovoltaici ricaviamo l’elettricità che usiamo per il nostro fabbisogno. Il surplus lo cediamo all’Enel, assieme all’energia ricavata dall’impianto di biogas, alimentato dalla macerazione di mais ed erbai insilati e dalle deiezioni bovine.
Chi è un cavaliere del lavoro?
Un cittadino benemerito dello Stato per le sue iniziative in campo economico e sociale, realizzate nel più assoluto rispetto della legge. Anche all’estero. Il ciociaro sir Charles Forte, che a Londra fondò una catena alberghiera internazionale, era cavaliere del lavoro.
Lei da quanti anni lavora?
Sono 60, ormai.
Quante ore al giorno?
Non le ho mai contate, per il semplice motivo che non faccio distinzione fra vita e lavoro. Per me sono la stessa cosa.
Ma si è sempre limitato a seguire il lavoro altrui oppure si è anche sporcato le mani?
La seconda che ha detto. Nel periodo della battitura dei piselli, che vendevo alla Cirio, stavo alle sgranatrici anche di notte. Oggi le macchine, mentre raccolgono, sgranano. E la Cirio ha lasciato Villafranca. Ergo, non coltivo più i piselli.
Non va in pensione?
Non mi è consentito. Ci sono firme e impegni che me lo impediscono.
Due sostantivi che ricordano debiti e cambiali.
Investimenti enormi. Per fortuna mi affianca mia moglie, che ha 25 anni meno di me ed è molto brava. Ci siamo sposati nel 1991, qui, nella cappella privata intitolata a san Pietro e a sant’Antonio.
Ma l’Italia le sembra ancora una repubblica fondata sul lavoro?
Direi proprio di sì. Certo, bisognerebbe aiutare gli imprenditori a conservarlo e a crearne di nuovo, invece si fa di tutto per scoraggiarli.
Esemplifichi.
Come puoi competere con tanti Paesi dell’Unione europea dove il lavoro è retribuito la metà, o addirittura un terzo, rispetto all’Italia? E gli affitti dei terreni? Qui nella Bassa hanno raggiunto livelli iperbolici. Nei Paesi dell’Est la terra te la tirano dietro, purché la coltivi.
Se lei fosse giovane e senza lavoro, verrebbe a sgobbare nei campi che ho visto arrivando?
(Ci pensa). Siccome ho simpatia per Finato Martinati, sì.
C’è un agricoltore che, partendo da qui, s’è fatto una posizione?
Ricordo che il veronese Giuseppe Trabucchi, all’epoca ministro delle Finanze, mi chiese di assumere Sandro Abdo, un giovane somalo. Rimase con noi un anno per uno stage. Diplomatosi in Agraria, tornò nel suo Paese, dove in seguito divenne responsabile di un’azienda agricola di Stato.
Perché i nostri giovani non vogliono più fare i contadini?
Non è proprio così. Esiste ancora l’interesse per le specializzazioni. Penso al settore vitivinicolo, che nella nostra provincia impegna molti trentenni.
Che capitale di partenza occorre per mettersi in agricoltura?
L’unico segreto è sapere in anticipo quale destinazione avrà il prodotto che fai sul campo, in modo da ritagliarsi se possibile una parte dell’utile derivante dalla trasformazione e dalla vendita al consumatore finale. In questo momento va di moda il biologico. Bisogna essere disposti a non usare né fertilizzanti né pesticidi, insomma nulla di chimico, e a sottoporsi a controlli ferrei, direi quasi ossessivi, da parte degli enti certificatori e degli acquirenti. E va bene così.
Ma poi arriva la cimice asiatica che si mangia tutto.
Da noi attacca la soia e il frumento. Difendiamo le colture biologiche con un prodotto a base di aglio, che risulta assai sgradevole per questo voracissimo insetto, mentre è ancora aperta la discussione sull’introduzione in Italia della vespa samurai, antagonista naturale della cimice. Bisogna prima accertare, dicono, che il rimedio non sia peggiore del male.
Come mai la coltivazione del tabacco è andata in crisi?
Non è solo coltivazione: è giardinaggio. Servono terreni sciolti e sabbiosi, molto drenati, che in Veneto si trovano solo nella Bassa veronese, qualcosa anche nel Vicentino, e nel resto d’Italia in Umbria e in Campania. Le piantine vanno trapiantate. Devi avere semenzai, irrigatori a goccia, essiccatoi a flusso d’aria, raccoglitrici, tutti investimenti molto onerosi. Il prezzo lo decidono le multinazionali, prendere o lasciare. Sostengono che ci guadagniamo. Io penso proprio di no!
Da luglio in Svezia il divieto di fumo è stato esteso alle banchine delle stazioni ferroviarie, ai parchi gioco, ai ristoranti all’aperto. Il Comitato nazionale di bioetica ha invitato il governo italiano a seguire l’esempio.
Quando c’è da esagerare, non ci facciamo mancare nulla.
Che cosa prova leggendo le frasi «Il fumo uccide» e «Nuoce gravemente alla salute» sui pacchetti di sigarette?
A parte che sono inutili, visto che il numero dei tabagisti resta stabile, non provo niente, perché non le leggo. Smisi di fumare a 70 anni, quando all’ospedale di Borgo Trento il chirurgo Gian Franco Veraldi mi prese per i capelli, applicandomi due bypass alle arterie femorali. Prima facevo fuori quattro pacchetti al giorno.
Aveva tendenze suicide.
Se chiudi con le sigarette, il metabolismo cambia. Devi stare a stecchetto per non aumentare di peso. I medici mi dissero: «Sei indisciplinato, devi scegliere: o vino o cotechino». Ho rinunciato al primo per tenermi il secondo. Nella vita bisogna sapersi accontentare.
L’Arena