ItaliaOggi, 19 novembre 2019
Primo delitto mafioso politico. È quello del banchiere Emanuele Notarbartolo realizzato dalla piovra in Sicilia nel 1893
La prima vittima eccellente del legame mafia-politica nella Sicilia del Regno fu Emanuele Notarbartolo. Sul quale in questi giorni sono usciti due interessanti volumi. Uno è di un docente universitario espertissimo di storia delle organizzazioni mafiose e già deputato del Pci: Enzo Ciconte, Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo? Il primo omicidio politico-mafioso (Edit. Salerno, pagine 232, euro 14).L’altro è un classico della politologia, scritto dal nostro primo e più grande scienziato della politica, Gaetano Mosca: Che cos’è la mafia? (più volte ristampato, ora per l’Editore Aragno, pp. 60, euro 12).
La vittima era un uomo importantissimo nell’economia e nella politica. Liberale conservatore, vicino alla Destra Storica, fu sindaco di Palermo, poi a lungo onestissimo direttore generale del Banco di Sicilia. Già la mafia l’aveva sequestrato e aveva dovuto pagare la libertà 50.000 lire. La sera del 1° febbraio 1893, mentre si trovava sul treno fra Termini Imerese e Trabia, venne ucciso con 27 coltellate da due picciotti di Cosa Nostra, Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, accusati ma non condannati.
Si capì che il delitto era frutto di una collaborazione tra mafiosi e alcuni politici. Il processo durò dieci anni in varie sedi, sempre concludendo che non c’erano colpevoli specifici. Si pensava che la sua direzione del Banco di Sicilia gli avesse accumulato non pochi odi e le voci popolari indicavano come mandante del delitto un politico della cerchia di Francesco Crispi, il parlamentare Francesco Palizzolo, soprannominato «Il cigno», di grande abilità negli affari e di certo non privo di legami con la mafia.
Mosca lo definisce «indistintamente aperto ai galantuomini e ai bricconi». A Bologna Palizzolo era stato condannato a trent’anni di carcere. Ma tutta la società «bene» di Sicilia si ribellò, a partire dal grande imprenditore Ignazio Florio, con la sua certezza: «Sono calunnie contro la Sicilia. La maffia? Mai sentita nominare». La Cassazione annullò la condanna e chiuse il processo. Segno evidente che la mafia non era solo nella politica, ma anche nella magistratura.
Se la ricerca di Ciconte è una attenta e documentata descrizione del delitto politico-mafioso, il breve studio di Gaetano Mosca è forse la prima analisi scientifica che cerca di rispondere alla domanda: «Che cos’è la mafia?». Esso nacque come conferenza, che Mosca tenne nel 1900 a Torino e a Milano, prima di pubblicarla nel Giornale degli economisti.
Le parole del siciliano Mosca, come sempre lucide e precise, partono dall’assassinio di Notarbartolo per dare alcune risposte scientifiche (le prime!), al problema più difficile. La criminalità non manca in nessuna società o stato, ma la mafia è una forma diversa di delinquenza. Essa è piuttosto una «mafiosità», cioè non una delinquenza individuale ed episodica. Essa è un’organizzazione sociale, che si crede anche «morale», ossia una forza che consente all’ordine dei potenti di trionfare.
È una «Mafia in guanti gialli» e in tal senso essa permea di sé tutto il tessuto sociale sino a divenire un elemento non separabile e anche non distinguibile da tutte le istituzioni.
Non è dunque una istituzione fuori delle norme, ma un elemento presente in tutta la vita economica e politica: «È una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali».
Le radici del fenomeno sono nel comune sentimento e spirito del popolo e anche se i mafiosi di professione (la mano d’opera) sono pochi, la mafiosità è quasi una caratteristica obbligata di tutti i siciliani. E li conduce a «reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale, alla politica e alla magistratura per la riparazione dei torti ricevuti». La pratica mafiosa più diffusa nelle popolazioni è l’ignoranza volontaria, ossia l’omertà, che è il perno della mafiosità, il diffuso «non ho visto niente» dei testimoni ai crimini.
Radicata nella coscienza collettiva la mafiosità diviene quasi una qualità della persona. E si diffonde in tutti gli strati sociali: «Mafia diffusiva sui. La conseguenza più brutta dello spirito di mafia sta nel fatto che mercé di esso acquistano una vitalità straordinaria un gran numero di piccole associazioni di malfattori».
Mosca spera che la «mala pianta» mafiosa possa essere, se non proprio estirpata, almeno ridotta. E indica, senza sperarci troppo, una condotta virtuosa della popolazione: «Ci vuole energia, solerzia, accorgimento ed una cura lunga e perseverante. Ci vuole il coraggio di ribellarsi al quieto vivere e di chiudere la triste era di codardia morale».
Bellissime parole che forse, nel più di un secolo della nostra storia, purtroppo non si sono molto realizzate. Anzi. E ciò non toglie loro né la validità, né l’attualità.