Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  novembre 19 Martedì calendario

Tosca al tempo di #metoo

Il titolo dovrebbe essere «Scarpia», non Tosca. Perché è lui il protagonista, da vivo e anche da morto, dell’opera di Giacomo Puccini che il 7 dicembre, con la direzione di Riccardo Chailly e la regia di Davide Livermore, inaugura la nuova stagione della Scala. Un’ombra, un ghigno, una presenza del sigillo di Scarpia vive in ognuno dei personaggi, appare come un incubo in ogni ambiente, a ogni snodo narrativo dei tre atti. Dall’inizio alla fine: subito, prima ancora che si alzi il sipario, con un fortissimo, a tutta forza, la musica ci informa che quell’uomo è un monstrum: il suo tema è costruito su tre gradi di una scala per toni interi, estranea all’orizzonte della musica colta europea. Un alieno, un virus che nutre e distrugge gli altri personaggi: quando, nell’ultima scena, Tosca si getta dagli spalti di Castel Sant’Angelo urlando «O Scarpia, avanti a Dio!» e dando così appuntamento al carnefice nell’aldilà per compiere la sua vendetta, l’ultima parola insiste sul si bemolle, la nota fondamentale del perfido.
Tra i due amanti – lei un’attrice troppo gelosa, lui, Mario Cavaradossi, un pittore-patriota imprudente – Scarpia, il capo della polizia politica pontificia, è l’unico ad avere le idee chiare: portarsi a letto la diva, simulando il baratto tra il possesso del suo corpo e la salvezza di Mario, e eliminare l’oppositore politico: «L’uno al capestro, l’altra fra le mie braccia». Siciliano e di origine nobile, il barone conosce bene il motto, ma non lo declina al comparativo, piuttosto lo considera un’equivalenza: «cumannari» non è meglio di fottere, è fottere. Una simbiosi che la regia di Livermore sottolineerà con evidenza: durante il secondo atto, il palcoscenico sarà disposto su due livelli, sopra Scarpia brutalmente tenta di possedere Tosca, sotto Mario viene torturato e le sue urla arrivano al piano sovrastante. Il pubblico vedrà simultaneamente le due sequenze. Livermore sta decidendo se aggiungere un ulteriore elemento destabilizzante: Scarpia accompagnato da un corteggio di suore, tutte giovani tranne una: cucinano per lui, lo servono a tavola, assistono a tutto, e la più anziana presenzia alla tortura. Quasi ci trovassimo in un romanzo del marchese de Sade, tra i sentieri contorti del sadismo e della complicità eccitante tra i poteri.
L’unica città dove il dramma originale di Victorien Sardou che ispira Puccini poteva essere ambientato è Roma. È la convivenza, a Roma consueta, tra esercizio di spiritualità, potere temporale e potere politico, a generare le pulsioni, le perversioni di Scarpia: nella scena finale del primo atto, mentre nella chiesa di Sant’Andrea della Valle si celebra il Te Deum, già eccitato da lei, esplode: «Tosca, mi fai dimenticare Iddio!».
Il barone – e con lui Puccini e i suoi librettisti Giuseppe Giacosa e Luigi Illica – conosce la libidine, la foia del potere, ed è il battistrada dei mostruosi personaggi creati dal teatro musicale del Novecento: «Salome, Elettra, Wozzeck: si dovrà ben trovare il coraggio, un giorno o l’altro, di nominare Tosca nella lista: l’opera debutta nel 1900 e cronologicamente verrebbe al primo posto», ha compreso, per primo, Fedele D’Amico. Il potere si esercita anche attraverso l’umiliazione fisica e morale dei sottoposti, delle sottoposte. Tosca è ambientata nel giugno 1800, dopo la sconfitta della breve esperienza della Repubblica Romana e il ritorno del governo papale, ma Scarpia è un tipo universale, perenne, ubiquo, confermando che il MeToo ha motivazioni globali.
Allestendo, per il Maggio musicale fiorentino del 1986, Tosca nella Roma occupata dai nazisti, il regista Jonathan Miller dichiarava: «In un suo libro, Gaia Servadio narra l’episodio dell’imprigionamento di Luchino Visconti e del tentativo dell’attrice Maria Denis di liberarlo. La Denis si recò così da Pietro Koch, il capo dell’omonima banda che terrorizzò Roma in quel periodo. Alle richieste di lei, Koch rispose che avrebbe liberato Visconti se l’attrice avesse accettato le sue proposte sessuali». Episodi analoghi ovunque, sempre. 
Anche la coscienza popolare italiana ne è ben informata: la canzone La povera Cecilia racconta di un «signor Capitano» al quale la donna di un uomo imprigionato chiede la grazia. «Vieni a dormire con me e domattina lui sarà libero», le risponde. Qui, la storia si apre a delle varianti: lei accetta, ma il suo amore muore comunque; non accetta e uccide il Capitano; non vorrebbe, ma il suo uomo insiste perché acconsenta, in cambio della libertà. In Viva la libertà! – La politica nell’opera Anthony Arblaster ricorda il carattere di «sofisticata, ossessiva crudeltà e piacere delle crudeltà di tanti regimi politici moderni» e sostiene che «Tosca è un lavoro più moderno e profetico di quanto sarebbe mai potuto diventare nella mani di Verdi».
Quando Tosca afferra il coltello col quale uccide Scarpia un attimo prima che lui la possieda, il modo in cui trova l’arma rimane ambiguo: la stava cercando oppure le è capitata per caso tra le mani? Il libretto precisa che lo scorge sul tavolo «improvvisamente», cioè fatalmente. Per una volta, il fato è dalla parte delle donne.