La Stampa, 19 novembre 2019
Intervista a Moises Naim su Hong Kong
«Il governo cinese potrebbe scatenare una nuova Tiananmen ad Hong Kong. Finora ha prevalso la cautela, ma dall’esito di questa crisi dipenderà la risposta alla domanda se è possibile l’affermazione e la crescita pacifica della Repubblica popolare, oppure se lo scontro è inevitabile».
Moises Naim, Distinguished Fellow al Carnegie Endowment for International Peace, si è occupato di questo tema molto prima dell’esplosione delle proteste, analizzando il rischio che il mondo sia destinato a cadere nella «trappola di Tucidide». Lo storico greco aveva previsto la guerra tra Atene e Sparta, perché non riteneva plausibile la convivenza fra due rivali così diversi. Lo stesso criterio ora si potrebbe applicare alla sfida fra Usa e Cina, anche se molti analisti contestano l’uso della terminologia della Seconda Guerra fredda, perché la prima era stata caratterizzata da uno scontro ideologico con l’Urss, che in questo caso non esiste.
Secondo lei scatterà la «trappola di Tucidide»?
«È la grande domanda del nostro tempo. Le questioni fondamentali che oggi dobbiamo affrontare sono tre: l’effetto dei cambiamenti climatici, l’impatto dell’intelligenza artificiale, e l’ascesa pacifica della Cina. Tre problemi collegati fra loro, perché Pechino è protagonista di tutte queste incognite».
Cosa c’entra Hong Kong?
«È un sintomo delle aspirazioni, tanto della Cina, quanto dei suoi oppositori. La protesta si può vedere in due modi. Negli ultimi mesi sono avvenute manifestazioni in tutto il mondo: Iran, Bolivia, Cile, Iraq, Venezuela, Francia: Hong Kong è parte della tendenza globale, o un fatto specifico? La Cina è una ha dittatura monopartitica, con la propensione al controllo di tutti. Ad Hong Kong, però, aveva promesse di adottare la regola di un Paese e due sistemi. Dunque la protesta è un altro episodio di quanto sta accadendo in tutto il mondo, o è una sfida alle ambizioni autoritarie di Pechino?»
Lei cosa pensa?
«Entrambe le cose. Tutte le proteste hanno avuto una scintilla molto specifica, e poi sono cresciute. Quella di Hong Kong è stata la legge sull’estradizione, ma ora si è chiaramente allargata».
Per il sistema è un problema locale, o una minaccia esistenziale?
«È curioso che la Cina abbia tollerato le proteste per diversi mesi. Potrebbe fare un’altra Tiananmen ad Hong Kong, ma finora l’ha evitata, lasciando alla polizia la gestione. È una dimostrazione della pazienza strategica di Xi».
Le violenze di ieri segnalano che la pazienza si sta esaurendo?
«Non lo sappiamo ancora».
Che effetto avranno le proteste sul rapporto con gli Usa e il negoziato commerciale in corso?
«In linea di principio non si collegano, gli Usa continuano le trattative. È molto difficile leggere le intenzioni dell’amministrazione, perché alla Casa Bianca c’è una persona assai volatile, ma finora ha chiaramente fatto capire di essere interessata all’accordo».
Washington dovrebbe usare Hong Kong per insistere di più sul rispetto dei diritti umani?
«Potrebbe, ma non può fare molta leva».
È più interessata ai commerci?
«Sì, e poi sul tema dei diritti umani Trump non ha molta autorità».
Lo scontro si può evitare?
«È molto difficile pronosticare. Finora le parti hanno spinto i loro interessi, ma c’è stata anche cautela. I leader di Usa e Cina sono stati attenti a non entrare in un conflitto diretto e violento, perché ne hanno tutti grande paura».
Possono convivere?
«Sarà importante vedere l’esito delle prossime presidenziali. Se Trump avrà altri quattro anni, la situazione si complicherà».