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 2019  novembre 19 Martedì calendario

Intervista a Roman Polanski

Tra i molti modi di fare un’intervista, il più scomodo è quello sull’orlo di un burrone. Esattamente dove rischia di trovarsi chi deve intervistare Roman Polanski dopo che la fotografa Valentine Monnier lo ha accusato di averla picchiata e violentata. I fatti risalgono a 44 anni fa e sono ormai prescritti, ma proprio per questo l’accusa (la quinta, dopo quella di Samantha Geimer nel 1977 per cui ha un conto ancora aperto con la giustizia americana, e quelle di altre tre donne, tra il 2010 e il 2017) rischia di trasformarsi in una condanna che nessun tribunale potrà mai cancellare. Un imbarazzo per chi vorrebbe mantenere distinto l’artista dall’uomo, che però ogni domanda rischia di amplificare, visto che il tema del suo ultimo film L’ufficiale e la spia, Gran Premio della giuria a Venezia, è proprio la storia di un errore giudiziario. E che errore, visto che racconta il caso Dreyfus, il più celebre scandalo della giustizia francese… 
Il suo film inizia con la degradazione del colonnello Dreyfus che grida la sua innocenza di fronte a chi gli strappa i gradi e gli spezza la spada. Perché ha voluto raccontare quella storia? 
«Dopo aver fatto Il pianista mi sono accorto della differenza e della soddisfazione che provi ad affrontare un tema importante, sociologicamente, politicamente o emozionalmente. I grandi soggetti fanno nascere spesso dei grandi film e la storia di Dreyfus, che avevo scoperto quindicenne in un mediocre film americano, Emile Zola di William Dieterle, e di cui mi aveva impressionato proprio la scena della degradazione, è indubbiamente un grande tema». 
Il film racconta gli sforzi del capitano Picard, appena nominato a capo dei servizi segreti, per smontare le accuse contro Dreyfus, accusato ingiustamente di spionaggio. E per farlo l’ufficiale non esita ad andare contro il Governo e lo Stato Maggiore dell’Esercito, cioè le sue ragioni di vita. Per la verità bisogna sacrificare ogni cosa? 
«Ci sono delle persone che muoiono per la verità. Molte lo hanno fatto e nel mio film ho voluto rappresentare lo scontro tra la fedeltà alla Ragion di Stato e quella alla verità. Picard la difende sia di fronte al generale Gonse, che lo invita a tener segrete le sue scoperte e portarsele nella tomba, sia di fronte all’attendente Henry, pronto a uccidere chiunque, anche un innocente, se gli viene comandato». 
Oggi è ancora così? 
«Un giorno ne ho parlato con il capo dell’esercito francese che mi spiegava come il loro compito fosse preparare i soldati a morire e a uccidere per la patria e come per un soldato fosse più facile morire per un ideale che uccidere. Ma l’esercito è così, ha aggiunto: vi si dice di uccidere qualcuno e voi ubbidite e se poi si scopre che c’è stato un errore, non è colpa vostra. Mi ha detto proprio queste parole, le stesse che poi ho messo nel film in bocca a Henry». 
I personaggi dei suoi film spesso scivolano verso un dramma che neppure immaginano, come se vivere volesse dire soffrire, perché è difficile distinguere il bene dal male, il vero dal falso. 
«Sono convinto che più si vive più si debbano prendere dei rischi: niente è senza prezzo. Come dicono gli inglesi: there is not free lunch, non ci sono pasti gratis. Picard è un soldato coraggioso e onesto. Non può accettare che l’esercito nasconda la vera spia per non dover ammettere di aver sbagliato. Lo ribadisce quando dice che avrebbe preferito che Dreyfus non fosse innocente: la sua vita sarebbe stata più semplice». 
Eppure alla fine del film, di fronte a Dreyfus che chiede la promozione che non ha avuto per colpa dell’incarcerazione, Picard diventato ministro spiega che l’opinione pubblica non capirebbe e perciò non può promuoverlo. 
«Le cose sono andate veramente così: è la verità e non volevo cambiarla. Ma soprattutto non volevo un happy end». 
Perché? 
«Volevo ribadire che anche oggi viviamo in tempi simili, nell’epoca della post-verità, dove l’emozione è più importante della realtà. Anche tutto quello che si scrive su di me risponde maggiormente alle emozioni che ai fatti reali. Per questo ho voluto fare un film dove si dice che in nome della verità bisogna sacrificare ogni cosa. Anche se poi alla fine bisogna imparare a fare i conti con il fatto che c’è qualcosa di ancora più forte della verità, l’opinione pubblica». 
Sembra che lei stia parlando delle accuse che le sono state rivolte. Il suo avvocato ha smentito le affermazioni di Valentine Monnier, ma lei non sente il dovere di ristabilire la verità su quei fatti anche di fronte al pubblico? 
«Ne ho l’intenzione. Ma non con lei». 
Insisto: quelle accuse non arriveranno mai in tribunale e quindi nessuna sentenza potrà stabilire la verità. La sola persona che può ribattere e spiegare i fatti è lei: non vuole farlo?
«Ho assolutamente intenzione di farlo. A ogni mio film succede qualcosa di simile a quello che è successo nei giorni scorsi. Dichiarazioni e accuse che finiscono per creare una palla di neve che rotola e si ingrandisce sempre più. Ogni volta c’è qualcuno che mi rimprovera qualcosa. Finora non ho parlato ma sono la sola persona che può farlo e lo farò al più presto». 
Quelle accuse risalgono a quasi 50 anni fa. È cambiato da allora Roman Polanski? 
«Sono invecchiato, naturalmente, ma penso anche di essere molto cambiato. Come regista ho imparato molto e mi sembra di fare meno errori: cerco di raccontare senza dover far vedere troppo, come quei pittori giapponesi che inseguono la purezza. Da giovane ero più esuberante, influenzato dal surrealismo e dal teatro dell’assurdo. Oggi mi sembra di essermi allontanato da tutto questo. Oggi mi sembra di essere più saggio».