Corriere della Sera, 18 novembre 2019
Perché i fiumi italiani sono a rischio
«L’evento è simile per quantità all’esondazione del 1992, con 150 millimetri di pioggia caduti in 12 ore, ma è molto più esteso». Il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ieri sera appariva sollevato, mentre era diretto a Pisa in vista dell’onda di piena eccezionale attesa nella notte. «Nel complesso l’aspetto idraulico ha funzionato, e questo è anche merito delle opere che abbiamo realizzato – continua il governatore —. Abbiamo allargato il canale scolmatore alla foce dell’Arno, che ora lascia defluire fino a 900 metri cubi d’acqua al secondo, e costruito la cassa di espansione di Roffia, che ha una capacità di 5-6 milioni di metri cubi. Ma abbiamo anche consolidato gli argini e risistemato le dighe, investendo negli ultimi dieci anni 100-120 milioni di euro l’anno per questi interventi, oltre ai 90 milioni che giriamo ai consorzi per fare la manutenzione ordinaria».
E così nonostante l’allerta di criticità elevata diffusa ieri dalla Protezione civile toscana nel Fiorentino, nel Grossetano e nel Pisano, con l’Arno che è esondato in mattinata nel comune di Pontassieve, a causa delle piogge eccezionali, e un allarme piena lanciato anche per l’Ombrone e il Valdarno, il sistema ha retto. «Io capisco i sindaci che hanno emesso delle ordinanze per evacuare dei residenti e chiudere le scuole», osserva ancora Rossi, «ma la situazione è sotto controllo, anche grazie all’impegno di tanti volontari e Vigili del fuoco, e questo dimostra che quando si fanno interventi strutturali e attività di manutenzione si riducono considerevolmente i rischi».
Già la manutenzione. Nella sola giornata di ieri le sale operative della Protezione civile hanno diffuso allerta da codice rosso in quasi una quarantina di bacini idrici in Toscana, Umbria ed Emilia Romagna, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. E oggi il rischio di esondazioni riguarda un’altra trentina di aree fluviali delle stesse regioni. Come si fanno a garantire il monitoraggio e la messa in sicurezza di tutti e 7.493 i fiumi del nostro Paese?
«Da dieci anni sappiamo che le esondazioni avvengono ormai per la rottura degli argini, e non più per il loro superamento», osserva il direttore dell’Istituto per la protezione idrogeologica del Cnr, Fausto Guzzetti: «Per questo l’attività di manutenzione è fondamentale, con la pulizia e il consolidamento degli argini. Il punto è che abbiamo migliaia di chilometri di sponde, tra fiumi minori e affluenti, e le Regioni e i Comuni che se ne devono occupare non sempre hanno le risorse e le competenze per garantire la qualità di questi interventi».
Il vero problema quindi è l’assenza di un’adeguata manutenzione della rete fluviale secondaria, che si va a sommare poi a interventi non idonei, come restringimenti e cementificazioni di corsi d’acqua, a causa di opere edificate a ridosso degli argini. Il caso di Genova, la città capofila per rischio idrogeologico, con centomila residenti nelle «zone rosse», cioè ad elevato pericolo di esondazione, è esemplificativo. «L’attività di monitoraggio è diventata molto efficiente – osserva ancora Guzzetti —, la Protezione civile è l’unico sistema federale che abbiamo, ed è in grado di darci previsioni sui rischi con 6-8 ore di anticipo. I modelli previsionali non ci permettono però di capire l’impatto di una piena in tempo reale, e sapere dove avverrà l’esondazione». Dopo la tragedia del Sarno, nel 1998, e sull’onda emotiva di quell’alluvione che fece 160 vittime, molti passi in avanti sono stati fatti nel sistema di prevenzione delle emergenze. «Oggi le Autorità di bacino devono redigere dei piani di assetto idrogeologico, ma poi sono i sindaci a dover far uso di queste informazioni, programmando gli interventi, e qui c’è ancora molto lavoro ad fare».
«Ha notato che non è morto nessuno? Non era scontato», conclude Renzo Rosso, docente di idrologia del Politecnico di Milano: «Dobbiamo ancora arrivare a un livello di rischio accettabile, ma i progressi nella gestione di questi fenomeni estremi ci sono stati».