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 2019  novembre 18 Lunedì calendario

ENTRO LA FINE DEL SECOLO VENEZIA E DIVERSE CITTA’ ITALIANE RISCHIANO DI FINIRE SOTT’ACQUA – L’INNALZAMENTO DEI MARI POTREBBE AGGRAVARE L’ESPOSIZIONE AI RISCHI DI INONDAZIONE PER MILIONI DI PERSONE - NEGLI ULTIMI 25 ANNI IL LIVELLO DEGLI OCEANI È CRESCIUTO DI 7 CENTIMETRI E I MARI AVANZANO DI QUASI UN MILLIMETRO EXTRA OGNI 10 ANNI – LA DOMANDA DELLE CENTO PISTOLE: “MA IL MOSE È STATO PENSATO INTEGRANDO GLI SCENARI DEFINITI DAGLI SCIENZIATI E DAI CLIMATOLOGI?” – IL LIBRO "PROFUGHI DEL CLIMA" DI FRANCESCA SANTOLINI -

Entro la fine del secolo, circa il 7% della popolazione mondiale, compresi gli abitanti di molte città costiere italiane, compresi quelli di Venezia – duramente colpita nei giorni scorsi e ancora oggi da tempeste e inondazioni – rischia di finire sott’acqua.

Lo dice una recente ricerca dell’Università di Princeton che va a mettere in evidenza che tutta questa rapida crescita dei livelli dei mari potrebbe aggravare l’esposizione ai rischi d’inondazione per milioni di persone, a cominciare proprio dagli Stati Uniti. Città come Boston, New York, New Orleans e Miami sono a rischio e le prime avvisaglie ci sono già state con l’erosione di diverse isole. Anche altri Stati possono soffrire le conseguenze dell’innalzamento dei mari, ad esempio i Paesi Bassi o Singapore.

“Gli esempi potrebbero continuare all’infinito fino a quando non si troverà una soluzione”, spiega all’HuffPost Francesca Santolini, giornalista esperta di temi ambientali e autrice di “Profughi del clima”, un libro appena uscito per Rubbettino Editore che affronta questi argomenti attuali e scottanti con un linguaggio adatto a tutti, perché simili problematiche devono essere conosciute e percepite da quante più persone possibili. Il titolo si riferisce a un esercito di esseri umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuto all’innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione e a conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche.

La categoria del “migrante ambientale” o, più opportunamente, di “rifugiato ambientale”, ancora non esiste nel diritto internazionale e questo, precisa l’autrice, “è anche un alibi a non occuparsene”. Ciò significa che le persone che migrano per ragioni ambientali o fuggono da eventi climatici, oggi sono fantasmi e non sono tutelate dal diritto internazionale oltre a non poter beneficiare dello status di rifugiato che la Convenzione di Ginevra del 1951 concede solo a chi è perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche.

Dell’ambiente e delle conseguenze del clima, e del diritto alla loro protezione, dunque, incredibilmente, non vi è ancora traccia. Al momento il dibattito sembra arenato sulle emergenze del Mediterraneo che alimentano i dibattiti politici interni ai paesi europei. L’Alto commissariato della Nazioni unite e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno tra i 200 e i 250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio Paese. Partono perché non riescono a sopravvivere nel loro luogo d’origine, non hanno più accesso a terra, acqua, mezzi di sussistenza.

Ci sono tanti cambiamenti connessi al riscaldamento globale, come ad esempio, quello che riguarda il ciclo dell’acqua, si legge nel libro. “Bisognerebbe chiedersi, aggiunge Santolini, se alla luce delle evidenze scientifiche – che ci sono da anni sulle conseguenze del livello del mare, anche a Venezia – se il Mose (il sistema di barriere mobili che dovrebbe salvare la città quando l’acqua si alza troppo, ndr) sia stato pensato integrando gli scenari definiti dagli scienziati e dai climatologi. Sono loro che devono essere ascoltati dalle istituzioni”. Negli ultimi 25 anni il livello degli oceani è cresciuto di 7 centimetri e i mari avanzano di quasi un millimetro extra ogni 10 anni, stando ad un recente studio dell’Università del Colorado Boulder.

“Sono preoccupanti, ma è un dato di fatto che non si può continuare a ignorare. Quello che è successo a Venezia, può succedere in tanti altri posti. Difficile dire se la tragedia di Venezia si poteva evitare. Sicuramente si tratta di una tragedia annunciata. Rispetto al 1966 è un fenomeno inedito che ha a che fare con le conseguenze del cambiamento climatico e che dovrebbe farci riflettere. Anche perché i costi economici per riparare i danni saranno altissimi, come sempre avviene quando si ha a che fare con tragedie climatiche”.

Ad influire nel cambiamento climatico, ci sono stati e ci sono diversi fattori. Da una parte l’innalzamento del livello del mare, dovuto allo scioglimento dei ghiacci, che è un effetto diretto del cambiamento climatico stesso, anche se stavolta a fare la differenza sono stati gli effetti di flussi di venti di Scirocco che provengono dal Sud, che sono sempre più frequenti nella nostra penisola e che anche in questo caso possiamo attribuire al cambiamento climatico. “Il vero problema – aggiunge - è che questo è solo l’inizio, un anticipo di quello che succederà nei prossimi anni.

Ci sono scenari apocalittici preconizzati da molti rapporti italiani e internazionali, in particolare, per Venezia si prevede un picco di marea di 2,5 metri”. Non si tratta di catastrofismo ma di realismo ed è lei stessa a precisarlo. “Negare oggi il cambiamento climatico è criminale, precisa l’autrice, mettere competenza e incompetenza sullo stesso piano non è mettere i cittadini in grado di decidere: è rendersi conto della dilagante disinformazione scientifica. Il cambiamento climatico esiste.

E’ la scienza che lo dice, da anni. Bisognerebbe ascoltarla e integrare le evidenze scientifiche nelle decisioni politiche di lungo termine. Gli anglosassoni usano un’espressione per definire questo rapporto stretto tra scienza e istituzioni politiche: sound of science, giocando con le parole del titolo di una bellissima canzone di Simon and Garfunkel. C’è da augurarsi che il “sound of science” risuoni anche nelle orecchie dei governi di tutto il pianeta. Compreso il nostro”.







PROFUGHI DEL CLIMA: CHI SONO, DA DOVE VENGONO, DOVE ANDRANNO

Introduzione del libro “Profughi del clima” di Francesca Santolini pubblicato da la Stampa



Il libro affronta quella che potrebbe trasformarsi nella più grave crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale, con flussi migratori che già investono il nostro Paese e che potrebbero avere dimensioni senza precedenti.

Nelle migrazioni, infatti, sono e saranno sempre più cruciali gli esodi provocati dagli effetti dei cambiamenti climatici. Eppure, nonostante l’evidenza, il tema e pressoché assente dalle priorità delle istituzioni nazionali e internazionali.

Quella che Zygmunt Bauman pochi anni fa definiva «la società liquida» (e forse non si aspettava di essere superato da formule successive come «società emotiva» o «società dell’istante») sembra incappata in una strettoia della storia, nella quale il potere politico, l’opinione pubblica, le classi dirigenti accelerano tutte insieme, intasando la via e bloccando sia le politiche nazionali sia il sistema internazionale.

La coscienza sociale sembra intossicata dall’eccesso di informazione e di dibattito scatenati dalla rete, e la politica spesso risulta in difficoltà nell’indicare le vere emergenze del nostro tempo e nel prendere le decisioni necessarie per farvi fronte.

Da qui gli incredibili ritardi che si registrano su norme e interventi che potrebbero permettere di gestire il fenomeno migratorio con politiche a lunga scadenza, garantendo lo status di profugo e il diritto d’asilo a chi fugge da territori devastati dal clima per non morire di fame o malattie o travolto dalla terra stessa che si trasforma, con l’esondazione dei bacini idrici, gli smottamenti montani, l’espansione delle zone desertiche.

E evidente che la comunità internazionale (Italia compresa) ha il dovere di preoccuparsi e occuparsi del contrasto alla nuova frontiera del traffico di esseri umani rafforzando politiche di integrazione e gestione condivisa. Ma resta impressionante il disinvolto ritardo accumulato nel predisporre un piano di azioni concrete per frenare i cambiamenti climatici.

Eppure, la svolta nella politica internazionale dell’ambiente era stata già definita a Rio de Janeiro nel 1992, e poi, nel 2015, una grande convenzione internazionale ha solennemente firmato accordi che stabilivano precisi impegni da attuare in tempi rapidi. Da allora, però, la politica di concreta attuazione degli impegni e proceduta con un continuo stop and go, fra scambi diplomatici da un summit all’altro.

I dati restano da allarme rosso, come ci confermano gli allarmi che non provengono più soltanto da ecologisti e naturalisti, biologi e fisici, climatologi e meteorologi ma ormai anche dagli economisti e broker di Wall Street, che non sono certo figli dei fiori in cerca di rapporti idilliaci con la natura, ma freddi analisti della contingenza economica.

Secondo uno studio della Banca Mondiale, gli effetti del cambiamento climatico in atto nelle tre regioni più densamente popolate del mondo metteranno in moto, entro il 2050, 143 milioni di migranti del clima come conseguenza di alluvioni, siccità, fame, carestie, epidemie, devastazioni di intere aree urbane per eventi meteo estremi che porteranno a incrementi mai registrati delle migrazioni forzate.

Ma non è tutto.

Per l’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, le variazioni climatiche e il fattore ambientale sono e diventeranno sempre più una minaccia alla sicurezza.

Ci sono aree più esposte, come l’Asia centrale, dove la mancanza d’acqua comincia a provocare spostamenti di popolazioni con conseguenze su molte economie locali con un impoverimento che incentiva l’esodo. L’Africa subsahariana occidentale, fortemente colpita dalle variazioni climatiche e

in rapido sviluppo demografico, e un altro hot-spot dove gli effetti amplificano tensioni sociali e debolezze strutturali, destabilizzando comunità già vulnerabili.

Per la prima volta anche il World Economic Forum, gotha dell’economia mondiale, riconosce il cambiamento climatico come il rischio più grande del pianeta. Secondo il rapporto “Global Report”, la «mancata mitigazione e il mancato adattamento al cambiamento climatico sono il rischio globale numero uno in termini di impatto, mentre il pericolo più probabile e costituito dalle migrazioni involontarie su larga scala, che registrano quest’anno la più forte crescita in termini di impatto e di probabilità».

Su questo, anche l’ultimo rapporto dell’Ipcc, l’organismo voluto dall’Onu che riunisce duemila scienziati di tutto il pianeta, è stato chiaro: «[…] il cambiamento climatico e destinato ad aumentare le migrazioni delle persone. Popolazioni che mancano di risorse per una migrazione pianificata sono maggiormente esposte ad eventi meteorologici estremi, in particolare nei Paesi in via di sviluppo a basso reddito. I cambiamenti climatici possono indirettamente aumentare i rischi di conflitti violenti amplificando i ben documentati “driver” di questi conflitti, come la povertà e gli shock economici».

A confermare il ruolo primario delle variazioni climatiche nei flussi migratori che si muovono dal Sahel africano verso l’Italia e il recente studio pubblicato sulla rivista internazionale Environmental Research Communications dall’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche. Secondo questa ricerca, gran parte del flusso migratorio verso l’Italia è già oggi causato da fenomeni meteo-climatici che rappresentano uno dei vettori principali degli spostamenti di massa.

Ma quand’è che un semplice migrante diventa «migrante climatico»? La natura e la novità del fenomeno, insieme alle troppe semplificazioni e incoerenze, hanno reso finora impossibile un accordo internazionale che stabilisca una definizione condivisa. Non e dunque un caso se non esiste una definizione ufficialmente riconosciuta di «migrante ambientale».

L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, ad ogni modo, ha già fornito una «definizione di lavoro» ancorché generica: «I migranti ambientali sono quelle persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati o scelgono di lasciare le proprie case temporaneamente o permanentemente, muovendosi all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali».

Tuttavia, la categoria del «migrante ambientale» o, più opportunamente, di «rifugiato ambientale», ancora non esiste nel diritto internazionale e questo e anche un alibi per non occuparsene. Ciò significa che le persone che migrano per ragioni ambientali o fuggono da eventi climatici sono fantasmi, non sono tutelate dal diritto internazionale e, dunque, non possono beneficiare dello status di rifugiato che la Convenzione di Ginevra del 1951 concede solo a chi e perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche. Dell’ambiente e delle conseguenze del clima, incredibilmente non vi è ancora traccia. Come non c’è traccia di un piano serio con politiche e investimenti per l’adattamento e la mitigazione del rischio clima nella nostra Penisola.

In questo libro leggerete di questa emergenza che sta già riversandosi su di noi, e prima ancora sulle popolazioni costrette a lasciare le zone del mondo che il clima ha reso ormai inabitabili. E leggerete della strana incapacità dell’informazione e della politica di rendersi conto dell’emergenza e di prospettare possibili rimedi.

Leggerete di una gigantesca onda di risacca che sta per rovesciarsi su chi, con gli occhi chiusi e le cuffie ben infilate nelle orecchie, si ostina a far finta che il mare sia calmo.

(....)

Entro la fine del secolo circa il 7% della popolazione mondiale, compresi gli abitanti di Venezia e di altre città costiere italiane, rischia di finire sott’acqua. Una ricerca dell’Università di Princeton mette in evidenza che la rapida crescita dei livelli dei mari potrebbe aggravare l’esposizione ai rischi di inondazione per milioni di persone negli Stati Uniti. “Città come Boston, New York, New Orleans e Miami sono a rischio e le prime avvisaglie ci sono già con l’erosione di diverse isole”. Anche altri stati possono soffrire le conseguenze dell’innalzamenti dei mari: i Paesi Bassi, ad esempio con gran parte del loro territorio sotto il livello del mare e protetto da un sistema di dighe che gli olandesi stanno già pianificando di rinforzare. Oppure Singapore...   Ci sono tanti cambiamenti connessi al riscaldamento globale, come ad esempio, quello che riguarda il ciclo dell’acqua. Gli scenari per fine secolo danno un aumento di due metri del livello del mare Negli ultimi 25 anni il livello degli oceani è cresciuto di 7 cm. Oltre ai 3 millimetri circa di innalzamento annuo, i mari avanzano di quasi un millimetro "extra" ogni 10 anni. Lo conferma uno studio dell'Università del Colorado Boulder in collaborazione con la NOAA, la NASA e l'Università della Florida meridionale pubblicato su “ Proceedings of the National Academy of Sciences ”.   Le previsioni sono confermate anche dall’IPCC che prevede un aumento globale del livello del mare tra i 52-98 cm entro il 2100. Circa la metà dei 25 centimetri di aumento del livello del mare riscontrato a partire dal 1880 è dovuto alla dilatazione termica dell’acqua. L’altra metà è attribuita alla fusione dei ghiacci ubicati sui continenti. L’Artico si sta riscaldando più del doppio rispetto al resto del pianeta con conseguenze pesanti per popolazioni residenti e fauna locale. L’aumento della temperatura media in queste aree del mondo è, infatti, il doppio di quanto registrato in altre zone del globo.