la Repubblica, 18 novembre 2019
Il record di Pozzo durato 80 anni
La decima sfida di Vittorio Pozzo non fu contro la Bosnia, come è capitato all’Italia di Mancini, bensì contro i maestri di calcio dell’Inghilterra, che a San Siro – il 13 maggio 1939 – interruppero con un pareggio la striscia vincente della Nazionale, iniziata quasi un anno prima. Segnò il 2-2 Willie Hall, mezzala del Tottenham, a 12 minuti dal termine. E senza saperlo diede una mano a Bonucci e compagni per stabilire, tre giorni fa a Sarajevo, il nuovo record, 80 anni dopo.
Molto si è parlato e scritto in questi giorni del celebre precedente firmato da Vittorio Pozzo. E il paragone, come ha fatto notare per primo proprio Mancini, non può tenere. Tutto è infatti cambiato da allora, persino il colore della terza maglia, dalla nera fascista alla verde commerciale. Degli attuali 10 successi, che questa sera potrebbero salire a 11 contro l’Armenia, ben 9 sono giunti nel corso delle qualificazioni all’Europeo. Le rivali le conosciamo: Finlandia, Liechtenstein, Grecia, oltre alle ricordate Armenia e Bosnia. Insomma, non proprio il gotha del calcio mondiale. Contro cui dovette invece imporsi la Nazionale di Pozzo, che piazzò i suoi 9 successi di fila a cavallo del Mondiale 1938.
Il filotto inanellato da Mancini, francamente insperato vista l’eredità ricevuta, con un’Italia fuori dal Mondiale dopo 60 anni, resta comunque un fatto storico, che ci obbliga a riaprire gli almanacchi per capire come si concretizzò la serie vincente firmata da Pozzo, ancora oggi il ct con più lunga permanenza sulla panchina azzurra (20 anni) e maggiore numero di vittorie (54). Il primo successo della serie fu contro il Belgio, nell’amichevole disputata a San Siro nel maggio 1938. L’ultimo contro la Germania nel marzo 1939, che precedette il pari con l’Inghilterra. Fu il Mondiale francese a occupare la metà della striscia di vittorie. Si partì con la vittoria assai sofferta contro la Norvegia (2-1), cui seguì quello di Parigi contro i padroni di casa (3-1). I francesi erano favoriti, visto che avevano sempre vinto sin lì le nazioni organizzatrici: l’Uruguay nel 1930, noi nel 1934. A Parigi accaddero però due fatti nuovi. La squadra fu obbligata a indossare la maglia nera su indicazione del governo, rappresentato in loco dal presidente federale Giorgio Vaccaro, in risposta ai fischi dei fuoriusciti durante la marcia reale suonata a Marsiglia. La seconda fu invece una grande intuizione tattica di Pozzo: fuori Monzeglio, in difesa, per far posto al giovane Foni, uno degli eroi di Berlino 1936. In attacco furono inserite le due ali emergenti: il bolognese Amedeo Biavati, col suo passo doppio, e il calciatore della Triestina Colaussi, che segnerà in tutte le restanti partite.
Era una Nazionale in forte cambiamento rispetto a quella trionfatrice nel ’34 a Roma. Erano rimasti Meazza e Giovanni Ferrari, architetto di centrocampo, ma attorno era tutto cambiato: dal portiere Olivieri al difensore Rava, dal mediano Locatelli al centromediano metodista Andreolo. La stella della squadra era Silvio Piola, salito a bordo nel 1935. Furono due suoi gol, assieme a una doppietta di Colaussi, a regalarci il Mondiale nella finale contro l’Ungheria, dopo che in semifinale avevamo battuto il celebrato Brasile. I sudamericani si sentivano più forti, al punto di preservare il fuoriclasse Leonidas per la finale. Invece, con il rigore calciato da Meazza, che mai perse l’elastico dei pantaloncini come si favoleggia, alla finale allo stadio Colombes giunsero gli azzurri, poi accolti da Mussolini a piazza Venezia. Se la Coppa del mondo di quattro anni prima era servita a celebrare i fasti del fascismo, quella del 1938 fu strumentalizzata come superiorità della razza italica, in un Paese che negli stessi mesi andava varando la schedatura degli ebrei.
Il filotto di vittorie si sarebbe allungato nell’inverno, quando Pozzo e Piola furono invitati a guidare, da punti diversi, la rappresentativa del Resto d’Europa che affrontò l’Inghilterra. La popolarità di Pozzo era ormai universale. Per amore della Nazionale, il giornalista ed ex dirigente della Pirelli rinunciò a tutto, persino ai soldi. Gli fu regalato solo un piccolo appartamento a Torino quando fu allontanato, in modo piuttosto traumatico, nell’estate del 1948. «Da lui mi separano due Mondiali e un’Olimpiade» ha puntualizzato molto correttamente Mancini. Confronti impossibili, improponibili, ma che hanno un pregio: costringono a riguardare indietro, in fondo al Pozzo.