La Stampa, 18 novembre 2019
Nel tour in ologramma la Callas batte il kitsch
L’orchestra ha appena finito di straziare la sinfonia del Signor Bruschino di Rossini quando compare lei, anzi LEI. Non in carne e ossa ma sicuramente in voce e pure tridimensionale, come se fosse vera e viva, le lunghe bellissime braccia incrociate sul petto in una delle sue pose tipiche. Attacca il valzer di Giulietta dal Roméo di Gounod e resti basito. Diciamo emozionato e perplesso in egual misura, anzi «a perfetta vicenda», come si scriveva sui cartelloni settecenteschi.
Maria Callas risorge al Gran teatro Geox di Padova. È The Hologram Tour, la divina ricreata dai prodigi al laser dei soliti californiani hi-tech, lei che canta con la voce delle registrazioni ma accompagnata da un’orchestra dal vivo, la Bohemian Symphony di Praga diretta da Eimear Noone (sembra un nome maschile, in realtà è una signora). Si fa da tempo con molte star del pop, specie quelle che ci hanno lasciato prematuramente tipo Michael Jackson (ma non Amy Winehouse, perché il padre ha negato il permesso), dunque perché non farlo con chi resta «la» cantante lirica per eccellenza? Il tour, in effetti, ha già fatto il giro di mezzo mondo. In Italia c’è stata venerdì questa prima e per ora ultima tappa, anche perché non è che le vendite siano andate troppo bene: dei 2.500 posti sono occupati più o meno la metà, insomma è un mezzo forno. Forse non è stata l’idea giusta tentare l’esperimento qui, in questo capannone aduso a musiche meno elette e per un pubblico che mangia popcorn e scatta foto a getto continuo. Un teatro d’opera si sarebbe magari riempito di più.
E certo, vedere sul palco la Callas può lasciare perplessi. Operazione commerciale, cinico sfruttamento del mito, baracconata con la tecnologia al posto del negromante sadico da novella di E.T.A. Hoffmann, macabro miracolo da racconto gotico con lo scienziato pazzo che crea il mostro dal sembiante umano, perfino un certo voyeurismo necrofilo: si scopron le tombe e si levano le primedonne. Tutto vero. E poi lei una tomba nemmeno l’ha, c’è solo una targa al Père Lachaise dove fu cremata, e le ceneri disperse nell’Egeo già solcato con l’orrido Aristotile. Eppure, a proposito di Frankenstein, come sempre con la tecnologia poiché «si-può-fa-re!» lo si è fatto, e insomma a trovarsela lì davanti, una certa emozione scatta. Dopo aver visto tutti i video disponibili, ascoltato tutti i dischi, quelli ufficiali e quelli no, le spedizioni punitive a Città del Messico e i live storici della Scala, sperando contro ogni evenienza che prima o poi questa benedetta Fedora salti fuori, noi cronologicamente svantaggiati dell’evo d.C., dopo Callas, la incontriamo finalmente «live»».
Già vedere dal vivo una morta è un caso. Lei poi è uno spettacolo anche per come si muove, il suo «port de bras» degno della Zakharova, la mano che si alza perentoria all’attacco della cabaletta di Lady Macbeth o, sempre in Scozia, l’angoscioso ossessivo sfregarsi le mani nel sonnambulismo, e peccato che il re bemolle non sia più quel «fil di voce» che voleva Verdi, e che invece proprio lei riuscì miracolosamente a filare, il 7 dicembre ’52 con De Sabata alla Scala.
Troppo facile, liquidare l’esperimento come la solita americanata. Intanto perché bisogna uscire dal circolo vizioso secondo il quale per noialtri «classici» la contemporaneità, tecnologia compresa, è sempre una minaccia e mai un’opportunità. E poi perché, paradossalmente, quest’omaggio sarà bislacco, ma pur sempre omaggio è, a conferma dell’unicità del fenomeno Callas. Con tutti i limiti del caso, abbiamo potuto vederla, o illuderci di farlo, e pazienza se l’incontro è avvenuto ai confini del kitsch o magari anche più in là. Infatti dopo un’oretta di spettacolo virtuale però realissimo, con la Divina che si materializza e sparisce come il fantasma di un B-movie, anche i ruminatori di popcorn applaudono conquistati.