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 2019  novembre 18 Lunedì calendario

Biografia di Carolina Bocca raccontata da lei stessa

Carolina Bocca è una di quelle persone a cui il destino ha dato due vite da vivere e la sensibilità di capire come uscire da una e entrare nell’altra. Nella prima aveva i capelli lunghi, una casa sempre perfetta e una catena di ristoranti. Nella seconda, ha tagliato i capelli, va a dormire anche senza avere sparecchiato, ha venduto i ristoranti. 
Nel mezzo tra le due vite, c’è Seba, suo figlio, il secondo di 4, un ragazzo «spettinato» che a 13 anni comincia a drogarsi. Sono passati 8 anni da allora. Seba non si droga più. Mamma Carolina ha deciso di dedicare la vita ad aiutare tutti gli «spettinati» come Seba. Lo fa con l’associazione del Pesciolino Rosso, la straordinaria fondazione creata da un papà, Giampiero Ghidini, dopo la morte del figlio Emanuele. Non è un medico, non è una psicologa. «Sono il risultato di una storia» come dice lei. Che condivide in giro per l’Italia con migliaia di ragazzi, mamme e papà. E che ha raccontato in due libri. «Soffia il vento nel cuore di mio figlio» e ora, appena uscito, «Senza pelle. La dolorosa gioia di esistere».
Perché «Senza pelle»? 
«Mi sono resa conto che gli adolescenti, più o meno problematici, hanno una pelle emotiva molto sottile. Tutti sopra quella biologica ne abbiamo un’altra, più o meno spessa. Questa generazione di giovani ha uno strato sottilissimo, perché non viene strutturato fin da quando sono piccoli. Ciò che arriva emotivamente dall’esterno li penetra in maniera profonda. Gli sguardi, le parole, i non detti. Sentono tutto. Penso che questa generazione sia una risposta antroposofica all’evoluzione del genere umano. Perché sono troppi, la maggior parte dei ragazzi ha problemi. Seguo famiglie di tutte le estrazioni sociali e portano la stessa fatica: figli che a un certo punto si ribellano al sistema, familiare, scolastico, sociale e si perdono nell’uso di sostanze. Ma non solo. Si perdono in comportamenti disfunzionali che poi sia mi ammazzo di canne, non mangio più, mi rinchiudo in casa, divento ludopatico, mi taglio...» 
Cominciamo dall’inizio... 
«Mio figlio cade nelle dipendenze a 13 anni. Terza media. A scuola mi dicono potrebbe dare di più... ragazzo intelligente. Lui prendeva lezioni il pomeriggio, ma non portava i compiti fatti al mattino. Faceva scena muta alle interrogazioni. Si era messo in sciopero. Una mattina l’ho seguito e ho visto che nel tragitto da casa a scuola fumava una sigaretta. Quando è tornato a casa gli ho detto ma tu fumi e lui sì sì fumo. Perché fumi? Mi risponde Perché ho l’ansia. L’ansia... perché un ragazzo in terza media deve fumare per placare l’ansia? L’ansia da che? Tutto sommato, pensavo, è vero siamo una famiglia allargata, ma non è che io e suo padre ci siamo mai presi a randellate. Famiglia amorevole, vacanze, alberi di Natale, regali, calore, estate, feste di compleanno. Non si può dire uno frustrato, uno che ha subito dei traumi. Questa ansia qua da dove arriva? Avevo però capito che non si sarebbe fermato lì». 
Cosa succedeva? 
«Aveva un comportamento oltre l’accettabile. Cioè... gli adolescenti vogliono stare fuori ma lui era sempre fuori casa. Gli adolescenti sono aggressivi, ma lui era sempre aggressivo. Gli adolescenti vogliono stare chiusi nella loro stanza ma lui era sempre chiuso nella sua stanza. Così ho cominciato a guardare i suoi social. E questo lo dico sempre ai genitori. Non farsi problemi sul fatto di tradire la loro fiducia perché guardate i social, nella borsa, nello zaino. Guardate e scoprite le password. Restate agganciati ai profili aperti e monitorate tutto quello che fanno perché vanno vigilati. Lì ci siamo resi conto che era entrato in un giro di spaccio. Giovanissimo...». 
Cosa avete fatto? 
«Mi barcamenavo, navigavo a vista. Un po’ facevo la mamma contenitiva, un po’ punitiva, un po’ amica, un po’ quella che non sapeva cosa fare. Di fatto non sapevo cosa fare. L’errore è stato non rivolgermi a dei professionisti. Poi ho fatto quello che non dovevo fare: allontanarlo. Un figlio problematico non va allontanato perché altrimenti si sente non amato, sbagliato perché difettoso, la pecora nera. O lo allontani perché lo metti in un contesto di cura adeguata e ci sono comunità per minorenni che sono luoghi straordinari dove i ragazzi fanno percorsi stupendi. O altrimenti lo tieni con te». 
Lui dove è andato? 
«Lo abbiamo mandato all’estero. In realtà ci siamo nascosti dietro il fatto che lo mandavamo in Inghilterra per lui, così cambiava ambiente. Di fatto non ne potevamo più. Perché comunque era molto impegnativo. Un figlio così ti mette in sconquasso tutta la famiglia. Altro errore». 
In che senso? 
«Dare il permesso a questi adolescenti di occupare tutto lo spazio e quindi per gli altri figli non ne resta. È stato in Inghilterra due anni. Ma ha continuato a farsi anche lì. Poi è tornato. E c’è stato il tracollo. Canne, anfetamine, droghe sintetiche. Ha provate tutto. Tutto tranne l’eroina. Poi una mattina sono usciti i tabelloni al liceo. Ero andata a vederli. Era stato promosso. Mi si è avvicinata la preside. Mi dice: Mi prometta che quest’estate lo mettete in sicurezza da qualche parte e comunque a settembre non possiamo riaccettarlo perché ha bisogno di cure. Non sta bene. In quel momento l’ho visto arrivare. Magro. Magrissimo, mangiava un panino al prosciutto. Erano le 10 del mattino ed era strafatto, visibilmente strafatto. Seba sei stato promosso. Lui niente. La sostanza blocca tutto. Non provi più niente. Lo fanno proprio per quello. È una cura per non avere emozioni. Gli ho detto ma non sei contento? Frega un cazzo, scialla mamma. Ho chiamato suo padre. Lo stiamo perdendo. Ho chiamato la comunità. Il martedì se lo sono venuti a prendere. Non l’abbiamo più visto per sette mesi». 
Lui si sarà ribellato... 
«Per niente. Prima di uscire si è girato verso il padre e gli ha detto: allora ce li hai i coglioni. Aspettava quella roba là. E l’aspettava da suo padre». 
Padri e adolescenza. Oggi cosa è cambiato? 
«I ragazzi hanno bisogno di sentirsi contenuti e sostenuti dalla figura maschile, hanno bisogno di quell’energia lì, che crede in loro, che non ha paura che cadano, che si sbuccino le ginocchia. Cadere e rialzarsi. Così si costruisce l’autostima. Le difficoltà creano capacità. Il problema qual è? È che viviamo in una società dove ci sono dei padri molli, periferici, assenti. Totalmente annientati da queste madri che nell’ansia da prestazione e nel delirio da controllo fanno dei danni». 
Quindi? 
«Quindi, mamme scendete dal piedistallo e fate un passo indietro. Delegate. Noi madri mediterranee abbiamo questo difetto di fabbrica del complesso di colpa. Tendiamo a sentirci responsabili per tutto ciò che i nostri figli portano di non funzionale. E facciamo un altro danno. Se ti fai carico di tutte le stronzate che fanno e non gli restituisci un po’ di responsabilità, non si responsabilizzano mai. Poi ognuno nasce con la sua pepita d’oro... in un contesto familiare di un tipo o di un altro quella pepita diventa più luminosa o meno. Un figlio problematico è frutto di una storia familiare che va rivista. Ma la storia familiare non è solo quella della mamma con il figlio. E lui ha le sue responsabilità. Prima c’era un altro modello sociale educativo. Fallimentare sotto altri punti di vista ma comunque in qualche modo conteneva. Oggi non è più efficace»
Ma non se ne è trovato un altro. Cosa non funziona? 
«Io sono solo una mamma che ha vissuto l’esperienza e che a un certo punto ha studiato per lavorare in questo ambito. Ma siamo proprio noi genitori, noi adulti di questa epoca che non funzioniamo. I ragazzi non vanno bene a scuola? Si comportano male, sono aggressivi, non fanno più sport, si fanno le canne, non mangiano... quello che tendiamo a fare è puntargli il dito contro: lui è il problema in famiglia e ci sta rovinando la vita. Senza di lui, se stesse bene, noi saremmo felici». 
Invece? 
«È una palla grande come una casa. I senza pelle sono la risposta a un malessere diffuso che nasce da noi, da una società che sta male. Sono talmente sensibili che succhiano tutto, se lo portano dentro, lo rielaborano mostrando una disfunzionalità. Ma se il sistema si mette in ascolto sono un’opportunità pazzesca... È questo il vero problema. Il malessere diffuso di questi ragazzi che hanno davanti un modello sociale fallimentare, una categoria di adulti profondamente infelici. Il nostro fare genitori oggi è fallimentare. Loro sentono, vanno al di là di ciò che vedono, fanno proprio questo disagio. E perdono la speranza». 
Cosa dovremmo fare?
«Intanto che gli educatori nelle scuole si formino. Non si può più tollerare insegnanti che fanno il loro lavoro senza passione perché hanno una responsabilità enorme. Dovrebbero essere tutti ispirazionali, come il prof Riccioni del Pescolino Rosso. E poi i genitori. Bisogna organizzare delle scuole per loro. Sto lanciando un corso di sostegno alla genitorialità on line. Saranno 10 o 15 tappe/lezioni. Ognuna un tema, con esercizi, una relazione finale che sarà letta da psicologi, e alla fine un incontro di due giorni in aula con me. Si può essere dei buoni genitori solo se si è fatto pace con l’essere genitori. Non si può più essere madri da sole». 
Quale crede sia stata la sua responsabiltà? 
«Ho replicato il modello familiare che mi era stato insegnato. E il mio non funzionava. È stato Seba a farmelo capire. Era come se dicesse: mamma liberati e sii te stessa, ascoltati, che ci fai qua? Non hai niente da dire tu a questa gente quando mi vedeva tutta pavoneggiante nel mio ruolo da imprenditrice...Mi sono fermata. Ho mollato tutto. Ma io chi sono? Cosa sto facendo. Vuoi vedere che ha ragione? Quattro anni fa avevo finito il primo libro, lui usciva dalla comunità. Mi sono iscritta a un master per lavorare con le famiglie con problemi e ho cominciato il mio viaggio. Poi ho incontrato Isabel e sono diventata volontaria del Pesciolino Rosso».
Isabel è la protagonista di quest’ultimo libro appunto. Chi è?
«Isabel è figlia di una mia carissima amica di Madrid che arriva da me perché la mamma non c’è più. Ha 17 anni. È una senza pelle che si taglia, che ha tentato il suicidio, ha problemi di bulimia. Eppure ha una gran voglia di vivere. L’accolgo senza giudizio e mi rendo conto che in questa relazione di aiuto che le do, mi metto a nudo. Lei mi racconta le sue sofferenze e mi riporta indietro, alla mia adolescenza. L’incontro con Isabel mi ha riscoperchiato tutta questa roba qua. È stato potentissimo».
A nudo per la seconda volta. Cosa c’era di diverso?
«Con Seba mi ero messa in discussione come madre. Che mamma ero stata, perché ero stata quel tipo di madre. In quel momento non c’era spazio per guardare me. Dovevo solo salvare mio figlio e quindi mi dovevo rimettere in gioco come adulta, come genitore. Con Isabel mi sono messa in discussione come donna. E rileggendo me stessa sono riuscita a salvare lei. Isabel oggi ha 21 anni e sta benone».
Un accenno di lezione per i genitori: qualche parola-guida? «Intanto non confondete un figlio adolescente sano che trasgredisce, prova, sbaglia, con un figlio problematico. Per fare questa cosa qui dovete andare da professionisti dell’adolescenza. Le parole? Ascolto attivo. Ascoltateli. Entrate davvero nella loro storia, non dare per scontato quello che dicono. La mattina quando vanno a scuola vanno in guerra. Alleanza. Create alleanze. Da soli non ci si può fare. Giudizio. Nessuno ha il diritto di giudicare nessuno. Dietro ognuno di noi c’è una storia che ci fa portare quella maschera che portiamo. Ansia. Non trasferite su di loro la vostra ansia perché spesso la loro ansia da prestazione è il risultato della nostra. Fallimento. Non parlate solo di scuola e delegate loro la responsabilità del risultato. Il fallimento dei vostri figli non è il vostro fallimento. Anzi, elogiate il fallimento. Hai preso un brutto voto? Bene. Cosa hai imparato? Cosa puoi fare di diverso? Oppure, hai preso un bel voto? Chissenefrega non è quello che interessa. È il processo... Frustrazione. Allenateli fin da piccoli alla frustrazione. Ai no. Non un no che dopo 10 minuti diventa sì. Pochi pochissimi no ma che siano fermi. Pienezza. Se un ragazzo è pieno e la pienezza la vive soprattutto in una situazione familiare sana, dove ci si confronta, si discute, dove non ci nasconde, dove quando si sta male si sta male ma si parla... Ecco, se un ragazzo vive questo, non c’è spazio dentro di lui per fare entrare la sostanza, l’alcol o tutto quello che c’è in giro».