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 2019  novembre 17 Domenica calendario

Intervista a Gianluca Guidi

Voce: profondissima, invariabilmente profondissima; modi: garbati, attenti, borghesi; stile: garbato, attento, borghese. Aspetto: a 52 anni la forbice tra un atteggiamento adulto – troppo adulto al tempo dei suoi venticinque e passa anni – e l’età reale si è riequilibrata e “magari finirò con secchiello e paletta. Ma forse quella di allora era solo una forma di difesa”. Quella difesa, in Gianluca Guidi, è rimasta sotto altre forme: “Sto sempre sul chi va là, temo perennemente la fregatura e spesso ci colgo”; così quando parla, di frequente, non guarda negli occhi, e non è una forma di scortesia, monitora tutto ciò che avviene attorno, tra una sigaretta accesa e una attesa, e un autocontrollo che lo porta a lottare contro se stesso, la gola, e i dolci più volte offerti dal barman.
In questa stagione Guidi è nuovamente in scena con Aggiungi un posto a tavola, sold out ovunque, applausi da diverse stagioni teatrali, “per uno spettacolo che ho ammirato sin dal giorno del suo debutto del 1974, e a forza di vederlo l’ho imparato a memoria”. Con un però: “La prima domanda che mi pongono i giornalisti quando vado nelle varie città è sempre la stessa: non teme il paragone con suo padre?”
Il paragone con Johnny Dorelli non lo teme, e anche qui il tempo sta riequilibrando le prospettive: “Con le ultime generazioni non si pone la questione”.
Quindi da ragazzo recitava a memoria “Aggiungi un posto a tavola”…
Oltre alla prima, poi sono andato a Londra con papà, ho visto in video la versione messicana, argentina, cilena, tedesca…
Aveva già deciso il suo futuro.
No, o meglio: in parte lo speravo. Poi è capitato nell’età giusta, non tanto per il personaggio, più giovane di me, ma l’età scenica mi consente di evitare paragoni.
La preoccupano?
In realtà me ne sono sempre fottuto, magari parte del pubblico credeva imitassi mio padre.
Invece.
È proprio Dna.
Il paragone scema con gli anni.
Ogni volta che mi pongono la domanda su mio padre, dentro di me penso: che due palle.
Insomma, sta scemando.
Per le ultime generazioni è così, poi tra me e mio padre c’è stata un’edizione con Giulio Scarpati, e una volta con lui mi uscì una battuta: “Anche George Lazenby interpretò uno 007” (Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà del 1969
).
Feroce.
Era solo una battuta, e poi stimo molto Giulio, forse quello non era il suo ruolo ottimale in quanto a indole scenica e canto; comunque per il mio senso dell’umorismo ho perso molti amici.
A sua madre chiedeva dei film in cui ha recitato?
Qualcosina mi raccontava, come quando ha girato con Totò Sua eccellenza si ferma a mangiare, e secondo mamma il principe manifestava un debole per lei, ma lei era una donna molto fedele, con le sue storie, però fedele; “Giangio”, mi chiamava così, “lui era molto più anziano di me e non era mica Sean Connery”.
Com’era sua mamma?
Una donna moderna, simpatica, grande humour, buona di carattere, e come tutti i buoni molto fessa: in tanti se la sono fatta fritta, compresa la vita, visti i dieci anni di Alzheimer.
Un dramma.
È una malattia che toglie dignità.
Si è mai controllato sul piano genetico?
Non voglio sapere un cazzo: se per caso un giorno me lo diagnosticano, allora mi chiudo in un ristorante, ostriche e champagne, per poi dirigermi in Svizzera e addio.
La Svizzera la conosce bene.
Da ragazzo suonavo il piano e le maracas in un night, giusto per guadagnare due soldi mentre frequentavo l’università, dopo essere fuggito alle superiori dal Classico di Milano…
Un liceo “bene”…
Talmente bene da tramutarmi prima in una sorta di Renato Curcio, e poi diventare ateo come reazione ai “fratelli delle scuole cristiane”, e alla loro manfrina cattolica.
Troppo.
Un giorno il preside, evidentemente disperato, convoca mia madre: “Signora, se mi assicura che lo porta via, noi lo promuoviamo”.
Addirittura. Cosa combinava?
Tra le mie varie imprese, ricordo un professore che mentre parlava sistematicamente sputava. Io per punizione ero perennemente al primo banco. Un giorno porto in classe l’ombrello e durante la sua spiegazione l’apro come forma di protezione; e questa è probabilmente la più sobria delle mie.
Quindi…
Mamma decise che dovevo trasmigrare al collegio dei Gesuiti a Lodi, ma lì avrei rischiato di tramutarmi in Giusva Fioravanti; papà risolse la questione proponendomi l’Istituto internazionale di Ginevra: dopo mezz’ora ero già sul treno per la Svizzera.
Suonava.
Durante i due anni di università con un repertorio vasto, ma principalmente concentrato su Frank Sinatra, poi un giorno papà lo scoprì, venne, e dovetti smettere.
Rimorchiava.
Non andava male, però nella vita sono sempre stato un uomo abbastanza fedele.
Abbastanza…
Non potrebbe essere altrimenti: sono sbadato, dimentico sempre tutto, e soprattutto non so dire le bugie.
Basta recitare.
Non è la stessa cosa; l’unica volta che ho fatto sega a scuola, per andare a baciare la fidanzata di allora, i miei se ne sono accorti.
Le controllavano i compiti?
Fino a una certa età, poi la situazione in casa è mutata, anche per i dissapori tra i miei, e mamma doveva lavorare: ero lasciato a me stesso, e non tanto sotto il profilo della forma, ma per quanto riguarda l’aiuto a crescere. E l’ho capito dopo essere diventato genitore.
E suo padre?
Presente, ma di fatto viveva a Roma, io a Milano, e il mondo, per un periodo, è stato Dorelli-centrico, un po’ come allora era anche Gassman-centrico, Tognazzi-centrico; alla fine le storie dei “figli di” sono tutte simili.
Cambia la reazione.
A un certo punto ho iniziato a farmi scivolare addosso molte situazioni; negli anni ho compreso la necessità di tornare indietro e affrontare le questioni centrali, i classici “conti con la vita”.
Non si scappa.
No, se vuoi diventare un uomo.
Prima di diventare uomo, ha presidiato un albergo solo per vedere Patsy Kensit.
Come lo sa?
Succede.
Avevo un gruppo di amici ed eravamo tutti pazzi di lei, sogno erotico assoluto; un giorno scopriamo in quale albergo di Milano avrebbe dormito, ci presentiamo lì ma era impossibile entrare e prendere una stanza; alla fine abbiamo affittato l’intero piano, quello sotto a lei.
Obiettivo raggiunto?
No, l’ascensore era presidiato da tre gorilla e noi tutta sera a giocare a briscola. (Ci pensa). Ora la mia passione è Emily Blunt, per me il nuovo Mary Poppins è paragonabile a un porno, visto quattro volte.
(Arrivano altri dolci, soffre ma non cede).
L’attore è disciplina.
Soprattutto quando hai in scena una spettacolo di tre ore.
Gioca sempre al Superenalotto?
Tutte le settimane e a ogni concorso; una volta ho vinto 17 euro e ho chiesto ai miei figli come li dovevamo impiegare, e loro: “Investiamoli in mozzarella di bufala”. Così è andata.
Com’è da padre?
Il più presente possibile.
Scaramanzie?
Nessuna.
Riti prima del sipario?
Mica sono matto, tutte cazzate.
I suoi colleghi li hanno.
Problemi loro.
Mondanità?
Ho avuto la fortuna di potermene fregare di salotti, feste e sorrisi forzati.
Per contrapposizione alla vita da bambino?
No, e da piccolo arrivavano a casa Marcello Mastroianni, Nino Manfredi, Paolo Villaggio, Alberto Lupo e Paolo Ferrari: ho vissuto situazioni meravigliose, spettatore-partecipe di una scuola inconsapevole di arte (ride), magari aprivo la porta e mi trovavo davanti Rossella Falk, donna della quale ero perdutamente innamorato.
Una lezione che ha ancora nella testa?
In assoluto, la più importante, è quella ricevuta da Gigi Proietti, maestro enorme soprattutto per l’apertura mentale rispetto a questo mestiere; professionalmente parlando è stato un secondo padre, gli devo la carriera, grazie a lui ho ottenuto il ruolo da primo attore (gli brillano gli occhi). Con lui era un classico restare a tavola, post-spettacolo, fino alle cinque del mattino.
Questa lezione…
Una sera, proprio alle cinque, entrambi avvolti dagli effetti del vino, mi fissa e con voce bassa, labbra serrate, mi lancia la perla: “Ricorda, in questo mestiere devi essere maniacale, altrimenti non andrai da nessuna parte”.
E…
Lo sono diventato, mentre non trovo lo stesso atteggiamento nelle nuove generazioni: i ragazzi sono ossessionati da se stessi, passano la vita ad affrontare i loro cazzi.
L’attore è una professione di autoanalisi?
Questa storia ha rotto, come i vari metodi di recitazione che ultimamente sono emersi: è un mestiere di tecnica, e come ho sentito recentemente “la tecnica preserva dai guru e dalla mode”.
Quando ha scoperto Proietti?
Nel 1992 andai con mia mamma a vederlo recitare il Kean, ne rimasi folgorato e ci sono tornato trenta volte; dopo lo spettacolo Gigi voleva andare a mangiare, poi suonare, bere vino e grappa; finivamo sempre in orari improbabili; il giorno dopo mi svegliavo rintronato, lui andava a teatro e non sbagliava una virgola.
Fenomeno.
Lì realizzi chi è un fuoriclasse, e simile a Proietti è Massimo Popolizio.
È fondamentale il dopoteatro?
Fino a qualche anno fa partecipavo, ora mangio e subito a letto.
Niente liturgia.
Ne ho condivise troppe, molte delle quali sbagliate: si finisce a parlare delle stesse cose, e a un certo punto si straparla; un tempo non comprendevo mio padre che cenava da solo in camera d’albergo, oggi lo capisco.
A 25 anni sembrava un uomo con un viso da ragazzo.
Sono diventato grande troppo presto, magari è stata una difesa; c’è un commediografo inglese che sostiene: “Non vado in analisi perché ho il terrore di scoprire che a quattro anni ero innamorato del mio cavallo a dondolo”. Oggi sono una persona centrata.
Da bambino la seducevano in quanto figlio di Dorelli?
Credo di no, mai avuta la sensazione, o forse non me ne sono accorto. E il carattere di mio padre non prevedeva alcuna forma di seduzione traslata da me; papà con il suo carattere ha lasciato parecchi cadaveri in carriera.
Secondo Antonio Ricci lei “è il padre di Dorelli”.
Sì, e ha aggiunto: “Quando canta sembra perdere il catetere”; su di me hanno inventato due battute geniali, una è questa di Antonio, poi c’è Fiorello che in radio ha dichiarato: “Gianluca è entrato in un negozio di antiquariato e per sbaglio è stato venduto”.
Lei ha definito Fiorello “un talento inarginabile anche da se stesso”.
Ora è diventato adulto ed è più cosciente.
Per lei molto teatro, poco cinema e tv…
Non mi chiamano, magari assomiglio troppo a mio padre.
Con Sorrentino è in “The young pope”.
Dopo un provino.
Teso?
Per niente, mi fumo una sigaretta e via.
Lei da attore: giudizio.
Non lo so.
Come regista?
Mi piace, e credo di realizzare spettacoli che raccontano delle storie, senza tanti ghirigori, più dalla parte del pubblico.
Durante la recita è mai squillato un cellulare?
Lì mi incazzo proprio, a volte ho interrotto lo spettacolo.
Chi è lei?
Senz’altro un soldato che si è smazzato da solo gran parte delle questioni.
Da piccolo leggeva le favole?
Poche, ho recuperato da adulto.
Pregio.
Non ho rimpianti né invidie.
Proprio nessun rimpianto?
Forse l’unico è di non aver dedicato maggior tempo al mare, il mio sogno era di vivere in barca con i miei figli e accompagnarli a studiare a Londra entrando in città attraverso il Tamigi.
Ateo o agnostico?
Entrambi, per questo interpreto bene il ruolo del prete.
I figli li ha battezzati?
Sì, almeno quello. Poi sceglieranno loro.
Jacopo Fo ha pubblicato una biografia della sua famiglia…
Davvero? Certe situazioni vanno tenute per se stessi, non scriverò mai un libro su di noi, meglio di no…