Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2019
A tavola con Maurizio Tamagnini
Siamo alla Sangiovesa di Sant’Arcangelo di Romagna. Questa osteria è stata resa famosa dalla frequentazione del poeta e sceneggiatore Tonino Guerra e dalla sua effige disegnata da Federico Fellini con le forme giunoniche delle donne più oniriche, piene e seducenti – insomma, felliniane – dei suoi film.
Maurizio Tamagnini, 54 anni, è uno dei banchieri che, nell’Italia Paese delle fabbriche, ha sviluppato una specializzazione e uno sguardo sul sistema industriale e sul delicato meccanismo di connessione fra strategia e successione familiare, finanza aziendale e finanza straordinaria.
All’ingresso, signore poco più che ragazze e nonne ancora con il volto da adolescenti stendono l’impasto delle piadine e dei cassoni, delle tagliatelle e dei cappelletti: sono la versione odierna delle razdore, le donne che per secoli – in tempo di benessere (poco) e in tempo di carestia (molta) – hanno governato le case e i campi, le aie e i desideri degli uomini nel mondo duro e dolce che è nato dall’unione dell’Emilia e della Romagna, dove perfino i tradimenti coniugali sono ragione di amarezza sorridente e di distacco ironico, come dimostra la “Festa dei becchi”, la festa di chi è stato tradito dal compagno o dalla compagna che si sta svolgendo a cento metri dalla Sangiovesa.
«Ho visto da ragazzo, negli Stati Uniti, che cosa significa la deindustrializzazione. L’uscita dalla manifattura senza un punto di ripartenza e tanto meno senza un punto di approdo. Ero solo uno studente della Bocconi in visita. L’esperienza fatta allora, in mezzo alle macerie della fine delle fabbriche americane, è stata utile», dice Tamagnini.
Suo padre Vittorio era a San Patrignano il fattore delle case sulla collina che, poi, sarebbe stata inglobata nella comunità di Vincenzo Muccioli. Lui e sua madre Giovanna si sarebbero spostati a San Salvatore di Rimini. «Durante la Bocconi – racconta mentre la cameriera ci porta il menù e la carta dei vini – andai per un semestre negli Stati Uniti. Era uno dei primi anni in cui, in Bocconi, facevano gli scambi. Io ero poco più che un ragazzino. Dissi di voler andare a New York. Ma non specificai New York City. Mi ritrovai nello stato di New York. Frequentavo il Rensselaer Polytechnic Institute, una scuola di ingegneria dove la Nasa reclutava i suoi specialisti. Vivevo a Troy, ridotta a una città fantasma dalla deindustrializzazione. Il tessile non c’era più. L’acciaio non c’era più. La meccanica non c’era più. Per risparmiare affittavo una camera nella grande casa di una famiglia un tempo benestante: una casa di cinque piani, in cui era rimasta solo una delle più grandi collezioni di bambole al mondo».
In questa sala in cui la passione per l’arte del Seicento ha indotto il proprietario della Sangiovesa, l’imprenditore e collezionista Manlio Maggioli, ad esporre a vantaggio dei commensali i suoi dipinti di Guido Cagnacci, la filodiffusione alterna un concerto di pianoforte di Mozart al liscio di Raoul Casadei.
La cameriera arriva con un carrello ricolmo di cassoni alle erbe e al formaggio caprino e al pomodoro, squacquerone con rucola e fichi caramellati, salumi e formaggi, piadine. «Per il vino proporrei questo Avi, un Sangiovese riserva che viene prodotto dalla Comunità di San Patrignano, con le vigne della collina su cui a lungo ha vissuto la mia famiglia», dice Tamagnini.
Tamagnini descrive la traiettoria della provincia italiana. Che, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, era complementare – non alternativa – rispetto alle grandi città. «Sono stato il primo del mio paese, San Salvatore di Rimini, ad andare alle superiori. Mio padre ha la quarta elementare e ha lavorato per quarant’anni in un pastificio. Mia madre ha la seconda elementare. Una volta, quando ero piccolo, mio padre perse 50mila lire in centro a Rimini. Tornammo tre volte a cercarle. Inutilmente».
La provincia italiana non è separata e distinta dalle grandi città. Ha avuto, nel secondo dopoguerra, la stessa energia e la stessa ambizione, le medesime spregiudicatezze e le medesime doppiezze degli agglomerati urbani. Ma, davvero, esprime la specificità di un pezzo d’Italia che partendo dagli ingredienti più poveri ed elementari – un poco come da secoli fanno a tavola le razdore - ha cucinato nell’impresa e nella cultura, nella politica e nella società pranzi in apparenza più semplici, ma comunque nutrienti e gustosi. E, questo, si avverte quasi con dolore adesso che quella specificità esteriormente trascolora, sullo sfondo di un Paese in cui l’ascensore sociale si è fermato e in cui la crisi economica si è distillata in una crisi identitaria e quasi spirituale dell’essere italiani. «Oggi è tutto cambiato, anche se nel profondo la dimensione della provincia rimane intatta», sostiene Tamagnini. Che, a un certo punto, con l’espansività fisica quasi agitata che hanno i romagnoli, si alza: «Verso io i cappelletti in brodo», dice mostrando una cicatrice all’avambraccio destro, formatasi tanti anni fa versandosi addosso la zuppiera. «Ho lavorato durante le superiori. E ho fatto il cameriere a Rimini, durante l’università, tutti gli anni da fine maggio a inizio settembre. Il cameriere è la migliore scuola di marketing al mondo. Ti insegna a trattare con i clienti e a tenere conto delle esigenze e delle richieste di tutti. All’inizio ero alla pensione Ivonne, una stella. Poi nell’albergo Bremen, due stelle. La prima volta che provai a entrare in Bocconi, la notte dell’esame di ammissione, dormii a casa di una famiglia che avevo conosciuto quell’agosto al Bremen. Non passai l’esame. Mi iscrissi all’Università di Bologna. Andai a Milano al secondo anno».
Tra la fine dell’università e il primo periodo lavorativo, Tamagnini è per tre mesi in una banca di Albany, capitale dello Stato di New York, chiamata First Albany Corporation, che ha una filiale a New York, dove è impegnato per due settimane. Un rapporto con gli Stati Uniti conservato ancora adesso, tanti anni dopo, come membro del consiglio dell’Harvard Cancer Center di Boston, diretto da Pierpaolo Pandolfi. È però allora che, da New York, inizia a spedire curricula alle banche d’affari. Il passaggio storico è – per Tamagnini come per una intera generazione di banchieri italiani – quello delle privatizzazioni. Il 2 giugno 1992 il Britannia, panfilo della Corona inglese, è al largo di Civitavecchia con a bordo esponenti della City e l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Tamagnini è a Londra in Merrill Lynch, di cui alla fine diventerà responsabile per il corporate e l’investment banking del Sud Europa.
Nel 2011 il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli e l’amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Giovanni Gorno Tempini lo chiamano come amministratore delegato del Fondo Strategico Italiano. Ci rimarrà cinque anni. Contribuendo a fare di quest’ultimo, nel disorientamento del capitalismo privato italiano e in un contesto segnato dalla crisi della finanza e degli investimenti pubblici, uno dei pochi soggetti attivi che – qualunque valutazione si dia del programma di investimenti del Fondo, con significativi successi ma anche qualche problematicità come l’investimento nella società di impiantistica Trevi – abbiano avuto consistenza finanziaria e peso specifico. Dice Tamagnini, mentre arrivano in tavola salsicce e trippa, arrosto con erbette e patate al forno: «L’investimento di quel periodo che ricordo con più soddisfazione è stato in Sia, la società specializzata in sistemi di pagamento. L’occasione mancata è stata la Borsa di Londra, quando questa ha comprato Piazza Affari e, dunque, gli azionisti di quest’ultima sono diventati azionisti della prima. La logica di quella operazione mi sfuggì. Due banche italiane, UniCredit e Intesa Sanpaolo, vendevano le quote di entrambe le società: Sia e Borsa di Londra».
Nel 2016, Cassa depositi e prestiti rimodula il Fondo Strategico Italiano. In Cdp Equity vanno le partecipazioni di lungo periodo che erano nel Fondo Strategico Italiano. A parte è costituita Fsi Sgr, di cui adesso Tamagnini controlla la maggioranza. Tamagnini è appunto amministratore delegato di Fsi, che gestisce un fondo di capitale per la crescita da 1,4 miliardi di euro partecipato non solo da Cdp, ma anche da fondi sovrani, investitori istituzionali e family office. Dunque, Tamagnini è diventato imprenditore di uno dei tre principali fondi europei di capitale per la crescita.
La capienza del fondo è stata utilizzata per il 40% con cinque operazioni. «La missione è investire in aziende che potrebbero entrare nel Mib30 fra cinque e o dieci anni, con gli imprenditori in sella. Credo nel patriottismo economico. La cosa più difficile, per gli imprenditori italiani, è aprire il loro capitale. Dico loro di non guardare al capitale di rischio come medicina di ultima istanza, dopo avere provato tutto il resto. Mi piacerebbe che Fsi, che ha già investito in Missoni insieme alla famiglia fondatrice, sviluppasse un polo del lusso. Ne stiamo parlando con le principali famiglie del settore», rileva Tamagnini, mentre qui alla Sangiovesa portano con il caffè la piada dei morti, una piadina dolce fatta di noci, arachidi e miele.
Nell’Italia scossa dalla Grande crisi, per quanto segnata dalla polarizzazione 20-80 (il 20% delle imprese manifatturiere a cui si devono l’80% dell’export e del valore aggiunto), la manifattura resta l’architrave del nostro edificio civile e sociale. E, davvero, qui a tavola con Tamagnini alla Sangiovesa, fra gli spettri della deindustrializzazione di Troy nello Stato di New York e i fantasmi benevoli di Sant’Arcangelo di Romagna rappresentati da Tonino Guerra e Federico Fellini, ti rendi conto dell’assimilabilità del nostro modello culturale e civile, economico e sociale al senso storico e umano rappresentato da Pier Vittorio Tondelli, scrittore della vicina Correggio, in Altri libertini: «Nella mia terra solo ciò che sono mi aiuterà a vivere».