Il Messaggero, 17 novembre 2019
Intervista a Chiara Ferragni
Quando è uscito nelle sale Chiara Ferragni – Unposted, il documentario di Elisa Amoruso che celebra la potenza mediatica e la vita della 32enne imprenditrice digitale di Cremona, ha battuto ogni record italiano: 1.601.499 euro in tre giorni, dal 17 al 19 settembre. Fra pochi giorni, il 29 novembre, il film sarà online su Amazon Prime Video in 200 Paesi, e anche lì si aspettano record, visti i numeri della Ferragni: 17,6 milioni di follower su Instagram, un brand valutato 36 milioni di euro, un matrimonio – celebrato il primo settembre 2018 – con il rapper Fedez che ha avuto un impatto mediatico superiore a quello tra il principe Harry e Meghan Markle (il 19 maggio 2018).
Nata come blogger di moda quasi 15 anni fa, Chiara ha saputo cavalcare come nessun altro in Italia l’onda dei social media e del web. Oggi è testimonial di brand importanti, ogni suo post vale migliaia di euro, le superstar della moda la elogiano (Maria Grazia Chiuri di Dior, Silvia Venturini Fendi, Alberta Ferretti etc.) ed è in prima fila a ogni sfilata che conta. Sul lato imprenditoriale, i numeri delle società di cui Ferragni è socia sono meno entusiasmanti: Tbs (acronimo di The Blonde Salade) Crew nel 2018 ha fatturato 5,75 milioni di euro con un utile di 98 mila, Serendipity 1,64 milioni con un utile di 193 mila, Sisterhood, la neonata di cui Ferragni ha il 99 per cento, nel suo primo bilancio ha dichiarato 5,28 di fatturato con un utile di 2,5 milioni (di quest’ultima non ha voluto parlare). L’abbiamo raggiunta a New York al telefono insieme al suo general manager Fabio Maria Damato, che nel documentario si vede spesso nei panni di assistente personale mentre accompagna Chiara ovunque, la aiuta a vestirsi, le scatta fotografie. La blogger ha appena presentato a New York il suo film alla stampa americana e farà altrettanto con quella europea dopodomani a Roma, all’Auditorium della Conciliazione.
Le critiche italiane non sono stati clementi...
«È normale. Hanno detto che è promozionale: ma se sto raccontando la mia storia, penso sia normale. Però è piaciuto a tantissimi, e questa è una bella ricompensa».
Anche il mondo della moda all’inizio della sua carriera di blogger aveva reagito male: perché?
«Ero la novità: spaventavo e non venivo compresa. A 22 anni andavo alle sfilate e c’erano persone con il triplo dei miei anni che davanti a me diceva: Questa non dura sei mesi, lasciala stare».
E invece.
«Le stesse persone si sono scusate e ora sono le prime che vengono da me per farsi i selfie».
Piaggeria o sincerità?
«Alcuni pensano solo alla foto figa con me, altri hanno davvero capito. Dieci anni fa non era facile comprendere quello che facevo».
Come reagiva alle critiche?
«È stata durissima. Avevo due strade: farmi abbattere o tirare fuori gli attributi per dire: Ok, ce la posso fare. Dimostrerò a tutti che ho ragione».
Così sicura?
«Sapevo di avere per le mani qualcosa di speciale. Ho iniziato a mettere le mie foto su internet a 16 anni, il mio nick era diavoletta87. A 19 anni le vedevano 30mila persone in media ed avevano sempre 100-200 commenti».
Cosa pensava allora?
«Mi ripetevo: Wow, questi sono numeri grossi. Sono istintiva e ho capito subito che quello che stavo facendo aveva una portata enorme. Avevo una marea di haters, quelli ne ho sempre avuti tanti, ma suscitavo interesse. Dovevo andare avanti».
Perché lo faceva?
«Per dare uno scopo altro alle mie giornate di universitaria: tornavo a casa, fotografavo i miei look, li pubblicavo online e guardavo avanti. Ed ero felice».
Quando ha capito che poteva guadagnarci?
«Con le prime offerte di lavoro: nel 2010 ebbi una mini ondata di successo e arrivarono parecchie proposte economiche. Anche dalla tv. Mi chiamarono in tanti, mi creda».
Perché non accettò?
«Non volevo diventare solo un personaggio televisivo italiano, non mi interessava. Puntavo a fare qualcosa nella moda a livello internazionale. Viaggiavo molto, abitavo a Chicago: se avessi accettato avrei dovuto fermarmi».
Rimpianti?
«Mah! Rifiutare a 22 anni non è stato facile: erano molti soldi e una notorietà immediata».
Ora le interessa diventare un personaggio televisivo italiano? A Sanremo va o no?
«Mi dicono di dire no comment su Sanremo».
Vabbè, lo guarda?
«In passato, sì».
Nel documentario ci sono molte donne influenti della moda che la elogiano. Come le ha scelte?
«Le ha scelte la regista, le ha intervistate senza che io fossi lì. Io ho visto tutto dopo, al primo montaggio».
Cosa ha pensato?
«Mi sono emozionata, è stato bello. La regista ha anche cercato qualche hater, ma si sono tutti tirati indietro».
Spesso nel film si chiede: Come reagirebbe la Chiara che vorrei?. Che vuol dire?
«Ho sempre avuto questa ossessione, spero sana, di diventare la migliore versione di me stessa. Nel 2016 ero a un punto fermo. E quindi ho cominciato a pensare a questa Chiara che vorrei, a comportarmi come avrebbe fatto lei. Funziona in tante situazioni: pian piano, poi, diventi la versione migliore di te stessa».
Un altro suo motto è: Se vuoi, puoi.
«Sì, ci credo».
Non tutti ci riescono, però.
«È più un’attitudine».
Lei ora cosa vuole?
«Serenità e continuare a fare quello che voglio, a essere trasparente, a parlare di tutto».
Nel documentario dice che decide sempre cosa mostrare: cioè?
«Abbiamo una nanny per il bambino che viaggia sempre con noi. Però non la postiamo per la sua privacy».
Frasi così starebbero bene in un libro motivazionale. Mai pensato di farlo?
«Mi piacciono i libri, ora ne sto leggendo uno in inglese».
Quale?
«Non ricordo l’autore... Si intitola Everything is fucked, a book about hope (è del consulente per lo sviluppo personale Mark Manson, ndr) e descrive come funziona la mente. Io adoro la mente. E anche i libri, ma...».
Ma?
«Non sono proprio la mia cosa, il mio modo di comunicare. Io sono più veloce. Molto di più».