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 2019  novembre 17 Domenica calendario

Vita di Boccaccio (intervista a Marco Santagata)

Diceva Louis-Ferdinand Céline che non si sa nulla della vera storia degli uomini, perché tutto ciò che è interessante accade nell’ombra. Niente di più scoraggiante per un biografo. Probabilmente anche Marco Santagata sa bene quali fatiche bisogna attraversare per mettere insieme il racconto di una vita, specie se si tratta di vite lontane: lo sa da scrittore di romanzi qual è, e lo sa in quanto studioso di Dante, Petrarca, Leopardi. E da un po’ di tempo da boccaccista appassionato (suo il Boccaccio indiscreto sul mito di Fiammetta, uscito l’anno scorso per il Mulino). Pochi come lui nell’avvicinarsi a un grande autore del passato (a questo punto gli manca Manzoni…) lo fanno, come si diceva una volta, a tutto tondo: senza ignorare che dietro il testo c’è una vita vissuta. L’esempio massimo è stato Dante, di cui Santagata ha curato l’opera omnia commentata per i Meridiani e del quale ha scritto il «romanzo» della vita. Santagata studia da filologo (carte, documenti, opere) e poi, nel raccontare, si comporta in due modi opposti: da una parte filtra ciò che ha studiato, si libera di quel fardello utilizzandone l’essenziale (l’essenza) per non far pesare sul lettore l’eccesso di erudizione; dall’altra, conserva quel patrimonio e lo discute in altra sede (nelle note e in appendice) per chi volesse approfondire gli intrichi e le connessioni. Un doppio movimento che appaga il Santagata scrittore e il Santagata studioso e permette loro di convivere nello stesso libro a tutto vantaggio del lettore, anzi dei diversi tipi di lettori. Così è stato per la sua vita dell’Alighieri nel 2012 e così è adesso per Boccaccio, che esce sempre da Mondadori con il sottotitolo Fragilità di un genio.
Ed è proprio nella «fragilità del genio» che Santagata affonda il bisturi, invitandoci in quelle zone d’ombra che secondo Céline sarebbero invalicabili. Il bello, invece, è che Santagata ci avvicina a Boccaccio (1313-1375) con l’incedere calmo di una narrazione confidenziale e affascinante, tenendosi in equilibrio tra la necessaria dotazione di notizie storiche, l’approfondimento critico-letterario e il ritratto psicologico di un personaggio-uomo tridimensionale. Un altro lavoro, simile ma diverso, rispetto a quello realizzato su Dante, perché diversa era la materia umana oltre alla consistenza documentaria (di Dante sappiamo poco). 
«Per Boccaccio – dice Santagata – è essenziale studiare la produzione latina, perché Boccaccio, a differenza di Dante, è proprio bilingue, anche se il latino per lui è una conquista lenta. Naturalmente è un terreno parecchio dissodato, ma pur sempre scivoloso: per gli autori medievali i punti di riferimento certi sono pochi e nel caso di Boccaccio le questioni aperte restano numerose. Per esempio, la cronologia della produzione giovanile in volgare, che risale al suo soggiorno a Napoli e rappresenta una buona percentuale del totale». 
Quel che si sa per certo è che Boccaccio fu indirizzato forzosamente dal padre Boccaccino, mercante, verso la mercatura prima di cimentarsi nelle prime prove letterarie. Dunque, essenzialmente fu un autodidatta, anche se poi si sarebbe iscritto in Diritto canonico all’università di Napoli. «Diversamente da Dante – aggiunge Santagata – sulla vita di Boccaccio abbiamo diversi documenti, non tantissimi ma per fortuna Boccaccio nelle sue opere parla molto di sé, pur sempre innalzando cortine fumogene di allusioni, allegorie, proiezioni di sé in altri personaggi. Giustamente, studiosi come Giuseppe Billanovich e Vittore Branca misero in guardia dal ricostruire la vita di Boccaccio sulla base delle sue opere: ma se è vero che l’esigenza del raccontare in lui ha sempre il sopravvento, al fondo ci sono parecchi elementi autobiografici, e resta difficile stabilire il confine tra realtà e finzione». 
Anche Petrarca, che fu per Boccaccio un modello letterario e un maestro di vita, parlò molto di sé. 
«D’accordo, ma Petrarca, mescolando e inventando, aveva lo scopo di costruire scientemente una sua autobiografia ideale. Il suo è un progetto molto lucido che Boccaccio non ha: pur essendo dominato dall’idea di mettere ordine nella sua vita, alla fine non ne fa nulla. Non si preoccupa nemmeno di raccogliere le lettere, a differenza di Petrarca che ne fa dei monumenti. Anzi, il paradosso è che Boccaccio si occupa delle lettere di Petrarca ma non delle sue: non ha nessuna intenzione di proporsi ai posteri come un modello e il parlare di sé è una pulsione irresistibile, dietro cui non c’è un progetto teorico. Del resto Boccaccio non ha mai scritto testi teorici: anche i suoi testi umanistici sono opere enciclopediche, exempla, racconti». 
In genere abbiamo di Boccaccio l’idea di un uomo pieno di ironia e di vitalità. Invece dalla biografia viene fuori un carattere instabile e insoddisfatto… 
«Boccaccio è sempre sulle difensive, psicologicamente fragile. Ha scatti di insofferenza e quando perde il controllo non sa misurare le parole: il suo è un equilibrio precario, in cui la depressione è sempre in agguato su un fondo di vittimismo molto forte. Boccaccio si realizza non tanto come personalità pubblica ma come uomo solitario. Anche in questo fu diversissimo dal sopraffino politico e intellettuale Petrarca. È clamoroso che Boccaccio fosse un chierico senza benefici, che non godette neanche delle esenzioni fiscali riservate ai religiosi. Aveva un rapporto difficilissimo con il denaro, dovendo dipendere dal padre». 
Da orfano di madre, ebbe un rapporto difficile anche con il padre. 
«Un rapporto affettuoso che si alterna con violenti attacchi di rabbia. Il secondo trauma della sua vita, dopo l’assenza della madre, è aver dovuto lasciare Napoli, il suo Paradiso perduto. Intendiamoci, essere un bastardo, cioè un figlio illegittimo, a quel tempo non era così raro né grave, ma Boccaccio l’ha vissuta come un’ossessione. Nei suoi romanzi gira sempre intorno a quel tema, inventa madri sedotte e abbandonate da uomini indegni e tutte francesi: guarda caso, immaginava nel Filocolo di essere nato da un’avventura parigina del padre con una principessa chiamata Gannai, anagramma di Gianni. Non è strano che il padre diventi il colpevole delle sue sofferenze». 
Forse Boccaccio dovette abbandonare Napoli per un suo clamoroso peccato letterario relativo alla mitica Fiammetta. 
«Dedicò il Filocolo, il suo primo romanzo, a una damigella di cui era innamorato e con quel libro contava di conquistare i dotti e i cortigiani di Napoli. Ma l’autore fu tanto baldanzoso da dichiarare che la damigella della buona società di cui era innamorato, chiamata Maria (e poi Fiammetta), era figlia illegittima e non riconosciuta nientemeno che del re Roberto d’Angiò e di una dama di corte». 

Un’imprudenza giovanile… 
«Un libro in cui si dichiarava che il re aveva una figlia segreta… avrà scatenato la gara a scoprire chi fosse quella misteriosa Maria, e forse di pettegolezzo in pettegolezzo si fecero dei nomi sulla famiglia nobiliare putativa della ragazza… Insomma, non è escluso che tutto ciò avesse finito per sollecitare la suscettibilità e l’irritazione del sovrano: di conseguenza Boccaccino, per prudenza, impose al figlio di lasciare Napoli e di tornare a Firenze. Anche per questo nella Commedia delle ninfe fiorentine, scritta subito dopo l’arrivo a Firenze, l’accusa di Boccaccio al padre si fa molto forte. Insomma, il Filocolo si rivelò un fiasco dovuto agli enormi guai di dabbenaggine». 
Solo un’ipotesi? 
«È l’ipotesi più economica, quella che spiegherebbe perché Boccaccio lascia un luogo per lui felice, interrompe gli studi ormai avviati verso la conclusione, per tornare precipitosamente a Firenze nella casa del padre e smette per un bel po’ di parlare di Maria-Fiammetta». 
Viene fuori anche il suo animo di grafomane compulsivo. 
«Undicimila pagine non sono poche. Boccaccio non ebbe le risorse materiali che consentirono a Petrarca di acquistare i libri e di ricorrere a copisti di professione, dunque fu per tutta la vita un copista instancabile delle opere proprie e altrui. Ricopierà la Commedia per ben tre volte e ancora da vecchio trascriverà di suo pugno il Decameron e la propria compilazione sulle donne illustri. Ma sin da giovane aveva cominciato a copiare opere di vario genere, antiche e moderne, su un codice di pergamena che diventerà il suo zibaldone». 
In cosa consiste il suo genio? 
«Nella capacità di raccontare la vita, la quotidianità: quando si lascia prendere dalla vena narrativa ha pagine bellissime. Sia in prosa sia in verso è un grande narratore e questo tratto fa di lui lo scrittore più moderno della sua epoca, anche perché è associato a un’altra caratteristica, lo sperimentalismo, la ricerca del nuovo e della varietà. Non c’è libro in cui Boccaccio non si inventi qualcosa di nuovo. Il Filocolo, un libro fluviale e debordante, è l’opera che più si avvicina all’idea di romanzo quale comincerà a svilupparsi solo tre secoli dopo». 
La modernità sta anche nel coniugare, come si direbbe oggi, alto e basso? 
«Il tentativo è quello di nobilitare la letteratura di consumo, un tentativo che perseguirà per quasi tutto il corso della sua produzione in volgare. Sin dall’inizio, cerca di far convivere le due anime della corte angioina: da una parte la cultura alta, scientifica e naturalistica, dall’altra la cultura bassa di evasione, rivolta in particolare al pubblico femminile».